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Biciclette: sì, vado contromano (e faccio il pelo alle vecchiette)

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Credevo che Scelta Civica non esistesse più, che le spoglie politiche del professor Monti fossero state definitivamente disperse in Senato, sua dimora eterna, in modo da farsi apprezzare dai consiglieri-senatori in gita romana nel futuro bivacco bi-settimanale immaginato da Boschi e Renzi, quando un emendamento – un banale, semplice, povero emendamento – me ne ha ricordato l’ancora prossimità alla vita. Raccontano le cronache come un azzeccagarbugli di questa nota formazione politica, scissa più dell’atomo, abbia mandato a remengo in Commissione Trasporti quella pratica stradale che vige da anni in larghissima parte d’Europa (non parliamo poi di quella del Nord) che permette al ciclista di andare contromano nei sensi unici. Cosa abbia animato il malvagio estensore dell’emendamento non è dato sapersi, probabilmente l’idea rigida e protervia che servisse difendere e confermare la primazia dell’automobile sulla evidente aggressione della bicicletta, i cui guidatori pretenderebbero d’occupare gli stessi spazi. E con pari dignità, pensate.

Qui mi toccherebbe un parziale autodafé, parziale perché onestamente non sono pentito, confessandovi che non solo vado già regolarmente nei sensi unici in contromano, ma salgo addirittura sui marciapiedi che sarebbero appannaggio dei pedoni e, udite udite, faccio persino il pelo alle vecchine (preservandole d’ogni possibile, ulteriore, cattiveria). Appena l’anno scorso, a Barcellona, al mio primo marciapiede “sfregiato” in bicicletta, mi sarei aspettato una sollevazione da parte dei catalani, ma naturalmente da povero italiano in gita mi ero costruito un film fasullo, culturalmente patetico, cioè attribuire agli altri quello che regolarmente accade nel tuo Paese. Invece nulla, massima condivisione degli spazi, nessuna protesta, ovviamente certosina attenzione da parte dei ciclisti dell’incolumità pedonale.

Leggo che tre comuni importanti come Milano, Bologna e Torino hanno scritto al ministro dei Trasporti perché ponga rimedio al Senato, allegando i dati europei che dimostrano che la norma non ha portato a una recrudescenza degli incidenti stradali. Semmai, possono essere più fatali gli incroci. Vedremo quindi se il buon Lupi, che peraltro è un maratoneta appassionato, troverà la soluzione.

Ma al di là della norma è chiaro un punto: in Italia la bici non passa. Al punto che si è creata una stupefacente lotta tra poveri, cittadini-pedoni e cittadini-ciclisti, i quali si contendono spesso gli stessi spazi, gli uni avendone diritto da sempre, gli altri per istinto di sopravvivenza (rischiando quotidianamente l’addio a questa terra appena toccano la strada). Le macchine e dunque i guidatori delle medesime vivono la loro vita tranquilla, credendo che le pulci a quattro ruote non abbiano diritti, né acquisiti né da acquisire. Il caso di Roma, lo cito perché lo vivo, è sotto questo aspetto semplicemente straordinario. Una megalopoli fagocitata dove le ciclabili non esistono, letteralmente non esistono (peraltro Roma è la città che è riuscita a far fallire la bici comunale condivisa, una prodezza da Guinness). Il noto sindaco-ciclista? Non pervenuto.

È una questione culturale? Certo, è una questione culturale. La questione è che nel tessuto comune si crede ancora che la bicicletta sia un mezzo unicamente di passeggio (e di passaggio). Per cui “viene dopo”. Al contrario, in molti Paesi è un elemento produttivo, economicamente sensibile, un mezzo “per” lavorare, “per” spostarsi da un luogo all’altro, “per” mantenere relazioni. Per, non contro.

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