Anche Airport Handling finisce sotto la lente dell’Unione europea, dopo il caso Sea Handling. La Commissione ha aperto un’indagine per esaminare se l’iniezione di capitale di 25 milioni di euro da parte della Sea Spa, controllata dal Comune di Milano che gestisce gli aeroporti di Linate e Malpensa alla controllata Airport Handling sia in linea con le norme sugli aiuti di Stato.
L’Ue vuole verificare se tale iniezione di capitale aggira la sua decisione del 2012, anno in cui richiedeva di rimborsare gli aiuti di Stato illegali per complessivi 360 milioni di euro che Sea Spa (titolare della concessione statale) aveva dato alla sua Sea Handling (operatore dei servizi di scalo) per coprire gli enormi buchi di bilancio dal 2002 al 2010 provocati da una reiterata gestione inefficiente.

Per le autorità italiane non c’è continuità economica tra Sea Handling, che avrebbe dovuto cessare di operare  a giugno 2014, ed Airport Handling, che invece  avrebbe dovuto avviare la nuova  attività il primo luglio 2014. Ma al momento è tutto congelato in seguito a problemi di “travaso” del personale tra le due società. La Commissione invece teme che lo scopo e il risultato della creazione di una nuova società sia quello di evitare di ripagare gli aiuti di Stato incompatibili, dal momento che la consistenza delle attività trasferite, il prezzo degli asset (i mezzi di movimentazione delle merci e di trasporto dei passeggeri , l’identità degli azionisti, gli stessi di prima, la tempistica e la logica economica dell’operazione) sembrano indicare che Airport Handling è di fatto successore di Sea Handling. Infatti, ai vecchi clienti dei servizi bagagli di Sea Handling (una quarantina di compagnie aeree) era arrivata una disdetta (concordata) del vecchio contratto e contemporaneamente si era provveduto a  proporre e stipulare un nuovo contratto, alle stesse condizioni di prima ma con la nuova società di Sea (Airport Handling).

Insomma la discontinuità  economica e di azionariato tra le due società non c’è stata. L’operazione gattopardesca, avallata dal proprietario il Comune di Milano, dal ministro Lupi e dalla regione Lombardia non è riuscita proprio quando sembrava tutto già fatto. La procedura adottata è stata giustificata  e si è fatta scudo dalla necessità di tutelare la continuità occupazionale per evitare il licenziamento e la riassunzione da parte di altre imprese  dei 2.200 addetti. Dietro l’allarme sociale si sono nascosti anche i sindacati spettatori inerti delle regole che venivano calpestate dal carrozzone Sea. Gli stessi manager che avevano provocato il deterioramento dell’azienda portandola ad un debito consolidato di 487 milioni della capogruppo ora sono quelli che dovrebbero salvarla. E pensare che alla fine del secolo scorso Sea era un esempio di efficienza e di qualità, una vera e propria “gallina dalle uova d’oro” che macinava extraprofitti.

A lungo andare  questa situazione ha generato politiche consociative e clientelari, grazie alle rendite monopoliste. Rendite possibili fino all’entrata in vigore delle nuove regole che oggi non si vogliono abbandonare. Progressisti, conservatori forze sociali e tutto lo schieramento istituzionale da Roma a Milano sono uniti per evitare il cambiamento. Partiti euro scettici e non scettici di fronte all’interesse di bottega  e corporativo. Nel maggio del 2013  Sea era stata miracolata dal suo ricorso al Tar da una sentenza che sospendeva il pagamento della maximulta di 360 milioni che l’avrebbe fatta fallire. Oggi si scopre che il giudice che ha depositato la sentenza è indagato per falso in atto pubblico per aver pubblicato una sentenza esattamente contraria alla decisione presa  nella camera di consiglio.

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