Centotrentanove morti in meno di una settimana. Boko Haram esce allo scoperto ed è la prima volta che la pericolosa setta islamista si spinge fino alla capitale. Le ultime esplosioni nell’affollata stazione di Abuja e gli attacchi dei giorni scorsi sferrati in alcuni vilaggi di Amchaka hanno dimostrato ancora una volta che il movimento non necessita di un legame diretto con Al Qaeda per portare a termine i suoi massacri.

Anche se il modus operandi sembra seguire una linea precisa, tracciata in passato da Fazul Abdullah Mohammed, l’uomo che Osama bin Laden nominò alla guida della milizia somala Al Shabaab e che mise in piedi i terribili attentati del 1998 alle ambasciate statunitensi in Kenya e Tanzania. Obiettivi “soft”: come alberghi, centri commerciali, villaggi turistici o navi da crociera (in sintesi i luoghi chiusi, che rendono più difficile il lavoro delle forze di sicurezza). E modalità “low-tech”: ovvero assalti condotti con semplici armi automatiche e molotov. Sintesi di un piano custodito in una chiavetta Usb rinvenuta negli indumenti proprio di Fazul, nel giorno della sua morte. Era l’8 giugno del 2011.

Non è chiaro se il dossier sia mai passato nelle mani di Abubakar Shekau, leader di Boko Haram dopo la scomparsa di Mohammed Yusuf nel 2009, ma gli attentati firmati recentemente dal movimento, compresi i rapimenti di diversi sacerdoti in Camerun (gli ultimi della serie riguardano i due italiani Giampaolo Marta e Gianantonio Allegri) fanno supporre che il gruppo mantenga una capacità tecnico-logistica molto vicina a quella dei suoi “competitor” qaedisti in Nord Africa.

E’ probabile che i massacri di Abuja e Amchaka siano stati un messaggio rivolto alla comunità locale. Un’azione dimostrativa volta a ristabilire l’ordine delle forze in Nigeria, dove la milizia – nota per i suoi spietati principi anti-cristiani – non ha mai goduto del supporto della “ummah” (comunità musulmana), e nel vicino Camerun. Quest’ultimo, infatti, pur essendo uno dei pochi paesi del continente a non aver mai subito un colpo di Stato o un rovesciamento violento del potere negli ultimi 10 anni, è diventato un terreno di conquista spartito nella lotta interna con Ansaru, la formazione scissionista accusata di aver ucciso, in occasioni separate, i due ingegneri italiani Silvano Trevisan e Franco Lamolinara.

Non a caso è proprio in Ansaru, che in tempi non lontani, sarebbero confluiti centinaia di disertori di Shekau. Sebbene in molti sostengano che il movimento sia una totale invenzione, un cartello dietro al quale si nasconde Boko Haram per distogliere l’attenzione della comunità occidentale dai sequestri messi a segno contro i suoi concittadini, ciò costituisce un’ulteriore prova del “melting pot” jihadista presente nelle regioni settentrionali del Paese lungo i monti Mandara.

Riguardo alle vittime degli ultimi giorni e ai sequestri messi a segno a danno dei due italiani l’unico dubbio rispetto alle responsabilità di Boko Haram resta legato alla rivendicazione degli atti, tutt’ora non pervenuta. Il che desta non poco stupore, visto che il movimento ha la consuetudine di esaltare pubblicamente le proprie operazioni attraverso l’ausilio dei media internazionali. Un eccesso di vanagloria, che traspare anche nel dna del suo stesso ex leader Yusuf: un uomo colto e benestante, al quale prima di morire – dicono – piaceva viaggiare a bordo di una Mercedes Benz da decine di migliaia di dollari.

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