Qualche mese fa nei circoli radicali inglesi si è parlato molto di Russell Brand.

Brand, trentotto anni, è un comico partorito dalla scuola di Mtv. Prima di diventare una celebrità in Gran Bretagna si è fatto le ossa come presentatore (Big Brother 6, Dancefloor Chart), ha condotto alcune trasmissioni radiofoniche e prestato il suo volto ad una manciata di film, senza troppo successo. Negli Stati Uniti ha ottenuto una certa visibilità comparendo in un paio di notiziari, riuscendo a contrastare  – con notevole destrezza – la banalità dei conduttori, ma soprattutto per aver sposato la sciapa megastar Katy Perry.

Brand ha sempre cercato di conciliare il suo narcisismo bohemienne con la partecipazione politica. Nel 2009 ha condannato l’attacco israeliano a Gaza. Durante il G20 a Londra ha partecipato alle proteste. Ha difeso Chelsea Manning. Dove finisse il buffone e iniziasse il Vip illuminato è stato sempre difficile stabilirlo. Ma nessuna delle sue sparate  ha destato uguale scalpore quanto la sua intervista con Jeremy Paxman a Newsnight, lo scorso Ottobre. 

In quei giorni Brand era stato scelto come guest editor della prestigiosa rivista radicale New Statemen, suscitando più d’un ciglio aggrottato. Nell’editoriale l’ex veejay aveva chiamato a raccolta gli uomini di buona volontà per porre fine al dominio degli avidi, in nome di un futuro più sostenibile. Interrogato da Paxman sul perché un individuo senza alcuna esperienza politica, che dichiarava di non aver mai votato, si sentisse in dovere di invocare una “rivoluzione”, Brand non ha esitato a rivendicare la propria autonomia intellettuale, nonché la necessità di instaurare un modello di redistribuzione più equo.

Il dibattito in Rete si è subito infiammato: alcuni commentatori di sinistra hanno messo sul tavolo certi episodi “sessisti” del passato di Brand – presunti o inventati -,  altri hanno applaudito al suo tentativo di portare idee “socialiste” ad una platea più ampia, e hanno denunciato la dannosa “caccia alle streghe” di molti radicali, buona solo a perpetrare la loro “vocazione minoritaria”.

Il problema (o sfida?) del mainstream è centrale in questa fase storica. Soprattutto per chi si propone di far uscire le proprie idee dai confini dell’accademia. Di una nicchia consapevole, ma perdente. Se il padronato usa tutti i manganelli che ha – la stampa, la tv come abbiamo visto qualche tempo fa – può la sinistra radicale avere i suoi propri “eroi mediatici”, i suoi giornali, le sue trasmissioni, un suo proprio intrattenimento, popolare e maggioritario?

Ciò che dovrebbe mettere in guardia noi italiani, dopo vent’anni di Berlusconi e dieci di Grillo, sono i rischi della politica-spettacolo. L’Inghilterra si è creduta a lungo immune dal virus populista, ma negli ultimi anni lo scenario sta cambiando, con i Tories in declino, un Labour che non convince, e terze forze come gli isolazionisti dell’Ukip in risalita.

Brand ha sempre negato di voler fondare un movimento o un partito. Ciononostante, i Vip televisivi hanno tutti i mezzi per superare i politici in termini di appeal ed efficacia organizzativa: hanno presenza fisica, parlantina facile, followers devoti e confusi (vedi i nostri “savianisti”), una macchina mediatica agile e flessibile capace di ordinare rapidamente crociate di spaesati.

Dovessi scommettere cinque pounds sul possibile Grillo britannico avrei in realtà un altro nome su cui puntare: il cuoco Jamie Oliver.

 

Paolo Mossetti è uno scrittore napoletano che vive tra Londra e New York, collabora con Rolling Stone, Vice, Domus e altre riviste. Il suo blog è www.kaosreport.com

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