Due elicotteri e 180 carabinieri in azione nella maxi operazione antidroga, denominata “Araba Fenice“, che all’alba ha portato a 43 arresti in provincia di Palermo. Il reato contestato è associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Un ragazzo di 18 anni è stato arrestato due volte, sia in adempimento dell’ordinanza di custodia cautelare sia perché colto in flagranza di reato: gli agenti gli hanno trovato della cocaina in casa. Le indagini hanno consentito di documentare l’attività criminale di due importanti organizzazioni che gestivano una delle principali piazze di spaccio palermitane. Nel corso dell’indagine i carabinieri hanno sequestrato sei chili di hashish, otto chili e 505 piante di marijuana, cocaina e eroina per migliaia di euro. Le ordinanze di custodia cautelare sono state emesse dal gip di Palermo su richiesta della locale Procura distrettuale Antimafia.

Le due organizzazioni, che non sembrano legate a Cosa nostra, avevano una struttura gerarchica ed erano stanzialmente gestite da due famiglie. Mai in lotta tra loro, i clan collaboravano utilizzando le vedette comuni per gestire i traffici. Delle due bande quella più potente era capeggiata da Antonino Lucera, 37 anni, detto Mino. Nell’arco delle indagini sono stati documentati centinaia di scambi che hanno permesso di arrestare 35 spacciatori al dettaglio. Nella piazza nella zona della Guadagna di Palermo operavano costantemente tra i 10 e i 15 uomini che fungevano sia da pusher che da vedette. “Gli spacciatori – spiegano gli investigatori – operavano in totale sintonia tra loro effettuando gli scambi in concorso, sotto la stretta sorveglianza dell’area da parte delle vedette che a bordo di scooter pattugliavano tutto intorno la zona”. I clienti facevano ordini di quantitativi ben precisi al telefono allo spacciatore di fiducia che poi lo indirizzava al momento dell’acquisto al pusher di turno. Per rendere più difficile il lavoro degli investigatori chi riceveva i soldi dagli acquirenti era diverso da chi consegnava le dosi e nessuno aveva la disponibilità di quantitativi di stupefacenti tali da raggiungere la dose che poteva costargli l’arresto per spaccio. Al telefono i trafficanti più esperti stavano attenti a non farsi scoprire da eventuali intercettazioni, chiamando la droga “scarpe”, “cocco” o “caffè” e utilizzando schede di servizio. I più giovani, invece, usavano telefoni intestati a loro o a parenti prossimi parlando con i clienti in maniera chiara di fumo ed erba.

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