Il salvacondotto giudiziario val bene uno spinello e qualche clandestino in più. E’ quello che deve aver pensato Silvio Berlusconi, quando sabato 31 agosto si presenta in largo di Torre Argentina a Roma per apporre la sua firma sui referendum radicali. Non solo quelli per “una giustizia giusta” (fra cui separazione delle carriere e responsabilità civile dei magistrati), ma tutti e dodici, compresi i quesiti sui cosiddetti “diritti umani”. Ed ecco che il Cavaliere, documento alla mano, verga di suo pugno la cancellazione del finanziamento pubblico ai partiti, la libertà di scelta nella destinazione dell’otto per mille, il divorzio breve. E poi il colpo di scena: l’ex premier dice sì anche alla marijuana libera e alla cancellazione del reato di clandestinità.

Firma per abrogare due leggi che portano il suo marchio di fabbrica, approvate quando era a Palazzo Chigi: la Fini-Giovanardi sulle tossicodipendenze e la Bossi-Fini sull’immigrazione. “Non sono d’accordo su tutti i punti, ma è giusto che gli italiani si esprimano”, si lascia sfuggire, dimenticando forse l’atteggiamento che lui e il suo partito hanno tenuto nelle due ultime tornate referendarie: nel 2005 sulla procreazione medicalmente assistita, quando il fronte laico, fallendo, provò a mandare in soffitta la Legge 40 e la più recente, due anni fa, con il trionfo dei quesiti contro il nucleare, per l’acqua pubblica e contro il legittimo impedimento. Se nel primo caso l’ex premier si limitò a un laconico “non so se voto” trincerandosi nel silenzio più assoluto, per la tornata del 2011, complice la scoppola che si era appena preso alle amministrative, fece campagna contro: “Un voto sul nulla”. E ancora: “Quesiti demagogici e fuorvianti”.

Altri tempi. D’altronde il Cavaliere allora poteva ancora vantarsi di non essere mai stato condannato nonostante i reiterati tentativi di una certa magistratura di estrometterlo dalla politica per via giudiziaria. Ora che invece è pregiudicato e rischia di finire fuori dai giochi, per giunta a causa di una legge (la Severino) da lui stesso votata, vale la pena rimangiarsi la tanto sbandierata tolleranza zero contro droga e clandestini per provare in extremis e per via referendaria la cosiddetta rivoluzione liberale della giustizia. Che, secondo i suoi calcoli, potrebbe portagli in dote il tanto desiderato salvacondotto per non decadere dalla carica di senatore.

Sembra passato un secolo quando, al fianco di Letizia Moratti durante le ultime amministrative milanesi, tuonava contro Giuliano Pisapia: ”Vuole la liberalizzazione delle droghe, le moschee in ogni quartiere, vuole Milano città aperta ai clandestini e ai campi rom”.

Era il 2011, lo stesso anno in cui l’allora premier faceva spallucce di fronte le pesanti critiche che piovevano da Bruxelles e comunità internazionale circa le politiche italiane sull’immigrazione. Dal reato di clandestinità, bocciato dalla Corte di Giustizia europea, fino ai respingimenti dei barconi in alto mare che nel 2012 valse all’Italia una condanna da parte della a Corte europea per i diritti dell’Uomo di Strasburgo. Normative contrarie alla Convenzione europea, che per Berlusconi però non avevano niente di sbagliato. Lo spiega lui stesso nel 2009, quando le autorità italiane per la prima volta deportano in Libia 200 somali ed eritrei, fra i quali donne incinte e bambini: “Il respingimento in mare non si significa assolutamente qualcosa di brutale. Noi ci accostiamo a questi barconi del dolore dove ci sono anche persone in schiavitù che vengono portate qui per esercitare il meretricio”. Un provvedimento “più umano” rispetto alla “detenzione nei Cie”, frutto della sempre più pressante esigenza di sicurezza dei cittadini. Che Berlusconi ha tradotto in realtà “grazie allo storico accordo firmato il 31 agosto 2008 con il leader libico Gheddafi” con buona pace di una sinistra che voleva aprire le porte a “un’Italia multietnica” con l’obiettivo di “concedere in 5 anni il voto agli extracomunitari e spostare a suo vantaggio la bilancia elettorale”.

Una battaglia liberale insomma, come quella contro l’utilizzo di sostanze stupefacenti, perché, come sostiene il Caimano, “la lotta alla droga prima di tutto è una battaglia di libertà”. Da perorare con una normativa criminogena come la legge Fini del 2006 che, eliminando la distinzione fra droghe leggere e pesanti e reintroducendo la dose massima consentita come spartiacque fra consumo e spaccio, ha riempito le patrie galere di semplici consumatori. Oppure creando nel 2009 il Dipartimento politiche antidroga per darlo in gestione a Carlo Giovanardi, uno che pensa agli spinelli e vede i vampiri: “La liberalizzazione delle droghe leggere comporta l’aumento del consumo di droghe pesanti e favorisce le attività criminali come la mafia”.

Ma adesso il pregiudicato di Arcore ha deciso di cambiare passo e anche su droga e immigrazione vuole “affermare il diritto dei cittadini italiani a poter dare il loro voto, sì o no, su dei problemi”. Comprensibile lo choc dei suoi compagni di partito che, tranne qualche eccezione si sono chiusi in un silenzio imbarazzato lasciando la filastrocca sullo spirito liberale del leader al solito Daniele Capezzone.  

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