In generale, le anticipazioni circolate, dalla nascita del Governo Letta ad oggi, sulle misure pensate dall’esecutivo per l’occupazione giovanile fanno un po’ sorridere, ma più di tutto disperare.

In prima fila, ci sono la consueta promessa della riduzione del cuneo fiscale per le nuove assunzioni e il familiare ritornello delle rigidità da eliminare, dove le rigidità sono gli attuali livelli dei salari, i diritti sul lavoro, l’impiccio della contrattazione collettiva. Lo stesso ritornello che ha accompagnato per anni le richieste di cancellare l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che, rendendo appunto troppo rigido il mercato del lavoro, frenava gli investimenti e disincentivava le assunzioni.

Alla fine l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero lo ha smantellato: il risultato è stato quello di rendere più fragili le condizioni per quelli che ne erano tutelati, senza cambiare di una virgola il contesto per quel 94% circa di imprese italiane cui l’articolo 18 non si applica. Tanto che mesi dopo, intervenendo ad un convegno a Bruxelles, la stessa Fornero aveva ammesso: “Non si può pensare che cambiare le regole del mercato del lavoro crei in sé occupazione”.

Nonostante ciò, la chiave di volta del piano del nuovo ministro Giovannini è proprio l’intervento sulle regole. Dopo aver testato la scarsa resistenza in difesa dell’articolo 18, il proposito è stavolta togliere i paletti – pardon, le rigidità – introdotte dalla riforma Fornero in materia di contratti a termine: via la causale, cioè il motivo per cui si inquadra con un contratto atipico chi svolge mansioni da subordinato, intervalli più brevi tra la scadenza di un contratto a termine e l’inizio del successivo. Non si interviene sui livelli di tassazione dei precari, di una riforma degli ammortizzatori sociali più equa e inclusiva neanche a parlarne.

Però, dall’Europa, si legge in questi giorni, possono venire risposte. Dal vertice di oggi con Francia, Germania e Spagna, l’Italia spera di ricavare il via libera a una serie di altre misure per l’occupazione, in particolare per i giovani. Tra queste, la possibilità di usare subito i fondi della Garanzia giovani, uno strumento pensato dalla Commissione europea che però dispone complessivamente di 6 miliardi per tutto il settennato 2014-2020. Poi c’è la richiesta di sfruttare il Fondo sociale europeo per incentivare le assunzioni (ma questo richiede un cofinanziamento nazionale, che l’Italia non sembra poter garantire) e di svincolare gli investimenti per l’occupazione dal calcolo del deficit, idea cui la Germania si oppone.

L’impressione, mettendo insieme programma nazionale e strategia europea, è che le prospettive siano piuttosto modeste. Però, a dirla tutta, non sorprende. Si può pensare un piano per l’occupazione senza una visione su come uscire dalla crisi? Anzi, si può pensare un piano per l’occupazione, in contraddizione con la visione dell’Europa sull’uscita dalla crisi, una visione in cui disoccupazione strutturale, proliferazione dei contratti precari, debolezza della contrattazione collettiva vanno perseguite per poter svalutare il lavoro e così rendere le esportazioni più competitive? Un piano per l’occupazione, insomma, in contraddizione con quella svalutazione interna, in alternativa alla svalutazione della moneta, che è il vero volto dell’altro ritornello di questi anni: le riforme strutturali.

“Se pensiamo di competere con paesi come la Cina sul costo del lavoro, siamo destinati a fallire”, aveva detto la Fornero in quel convegno a Bruxelles. A quanto pare falliremo.

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