Quando leggiamo di carenze alimentari, malnutrizione, scarso accesso a cibi proteici ed energetici di solito il nostro pensiero scivola verso l’Africa, l’America Latina, l’Asia. Ci immaginiamo le favelas, le tendopoli degli sfollati per la guerra, le lunghe file per la farina o per il riso. Concedetemi di essere brutale: diamoci una svegliata.

La fame nel mondo è qui, nel centro del nostro mondo ‘civilizzato ed occidentale’. La crisi sta mettendo in ginocchio intere fasce della popolazione italiana. Qui non si tratta solo di sfamare gli immigrati clandestini che vanno alla Caritas o le altre lodevoli organizzazioni. Un sempre maggior numero di italiani, nostri concittadini sono ridotti alla fame.

Le cause possono essere molteplici: genitori divorziati con figli che hanno una situazione economica disagiata, pensionati che, dopo aver versato contributi tutta una vita, non ce la fanno, persone che han perso il lavoro. L’emergenza è reale, presente e tutta italiana!

Nel mio cercare casi positivi mi son imbattuto nella fondazione di Qui Group: QUI Foundation. Il gruppo gestisce soluzioni di buoni pasto per aziende. Nulla di nuovo. Quello che mi ha colpito invece è la scelta del presidente del gruppo di creare una fondazione per provare a porre rimedio ad uno scenario italiano in totale degrado. Data l’esperienza sul campo come gruppo di buoni per il pranzo Qui Group ha una visione sugli sprechi che i singoli ristoranti e le catene di ristorazione hanno ogni giorno.

Le quantità di cibo che vanno al macero sono impressionanti, e soprattutto potrebbero essere donate a chi ne ha bisogno. Ma come al solito succede, in Italia, la burocrazia sembra fare di tutto per rendere un gesto di buon senso (civile e sociale di questi tempi) qualcosa di complesso. I ristoratori si trovano ad affrontare, nel loro essere virtuosi e voler donare il cibo invenduto, una vera barriera burocratica che impone loro costi aggiuntivi per espletare un atto di umana attenzione nei confronti di chi ha bisogno.

Il progetto di Pasto buono mira a sviluppare un sistema di gestione dei pasti invenduti per distribuirli a chi ne ha bisogno. Oltre alla donazione classica, vi è anche una formula che si basa sull’impiego di una card elettronica che sfrutta le soluzioni già esistenti dei normali buoni pasto, con la grande differenza che qui lo scopo di questo strumento non è economico ma sociale. In più i singoli ristoranti o le catene hanno la possibilità di farsi identificare da chi è titolare della carta, grazie ad uno sticker esposto sulla vetrina.

Il progetto è già attivo a Roma e Genova, mi domando quando gli altri capoluoghi di regione si attiveranno in tal senso. Milano soprattutto, con il grande progetto di Expo2015, dovrebbe essere in prima linea per supportare una soluzione del genere ed integrarla nella rete di supporto sociale esistente. Sia ben chiaro. Qui non sto dibattendo se questa soluzione sia meglio di altre già esistenti. Trovo che l’approccio tecnologico la renda più facilmente scalabile e diffondibile sul territorio strutturandosi e integrando le preesistenti reti di solidarietà che svolgono attività assimilabili su tutto il territorio nazionale. L’emergenza vera, tangibile e purtroppo in crescita è che l’Italia, e in vero tutta l’Europa, sta lentamente scivolando in uno scenario da terzo mondo! E da cittadino di una nazione moderna non voglio accettare che miei concittadini, che hanno pagato tasse per una vita, che abbiano un lavoro oppure lo abbiano perso, si trovino a frugare nei cassonetti dell’immondizia e nelle pile di frutta scartata dai mercati rionali. E’ qualcosa che non può e non deve esistere in Italia.

@enricoverga

 

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