L’inizio della primavera lo festeggio sotto la pioggia osservando un piccolo tavolino sul quale ci sono una mela, una testa d’aglio, un libro, dei fiori, uno specchio – “per essere visibili come siamo”. La preparazione di questo tavolino simbolico è Haft Sîn, il rituale con cui si festeggia il Nawrūz

Era Capodanno ieri infatti a Villa Borghese sotto la statua del poeta persiano Ferdowsi, in compagnia della comunità iraniana di Roma. Il Nawrūz – “nuovo giorno” – è una ricorrenza tradizionale che celebra il nuovo anno e che è festeggiata in Iran, Azerbaigian, Afghanistan, Albania, Georgia e altri paesi dell’Asia.

Ricorre in coincidenza con l’equinozio di primavera. Sul tavolino sette elementi che iniziano con la lettera ‘S’, in persiano. Il sette è un numero sacro e il numero degli arcangeli con l’aiuto dei quali, tremila anni fa, Zarathustra fondò lo Zoroastrismo. L’Haft Sin porta salute, prosperità, purezza spirituale e lunga vita. I sette elementi sono: lenticchie a simboleggiare la rinascita, orzo germogliato a simboleggiare l’abbondanza, frutti secchi di oleastro a simboleggiare l’amore, aglio a simboleggiare la salute, una mela rossa a simboleggiare la bellezza, bacche per l’asprezza della vita e aceto, a simboleggiare la pazienza e la saggezza. 

L’Iran (antica Persia) è il paese dove il Nawrūz è nato e dove la tradizione è probabilmente più sentita. Il Nawrūz fu una delle poche festività dell’antica Persia a sopravvivere all’avvento dell’Islam; i primi musulmani incorporarono infatti la festività insieme alle feste solenni del loro calendario sebbene la festa fosse zoroastrista. La tradizione attraversò il periodo del Califfato fino ad arrivare a noi quasi immutata.

Bello vedere come si possa a volte viaggiare nella propria città e venire a contatto con diverse culture, così ricche e antiche. Eppure a volte, trasmigrando, certe ricchezze si perdono nelle distrazioni, nella poca attenzione verso l’alterità.

A pochi metri dalla statua di Ferdowsi c’è infatti la statua di Nezami, altro grande poeta persiano, la cui statua è stata donata al Comune di Roma dalla Repubblica dell’Azerbaigian. Nezami scrisse: “La parola che non sgorghi da profondo pensiero non è degna, quella, d’essere scritta né detta.”

Sulla base della statua di Nezami si legge la seguente dicitura: “Poeta azerbaigiano Nizami Ganjavi 1141-1209”. La dicitura è un anacronismo, perché il poeta Nezami di Ganje (1141-1209 ca.) compose tutte le sue opere unicamente in lingua persiana, in una regione allora denominata Arran, che venne a far parte del cosiddetto Azerbaigian solo all’inizio XX secolo (dove oggi si parla una lingua turca chiamata azero).

Definire Nezami “poeta Azerbaigiano” equivale a definire Erodoto “storico turco”, anziché “storico greco”, solo perché l’antica Alicarnasso, patria di Erodoto, si trova nel territorio dell’attuale Turchia.

L’associazione Alefba ha così lanciato una petizione su Change.org, per chiedere al Comune di cambiare la targa della Statua. Sono state raccolte 1300 firme, consegnate alla Sovrintendenza e al Gabinetto del Sindaco. Ed ora speriamo che la prossima parola scritta sotto la statua “sgorghi da profondo pensiero”.

Articolo Precedente

Turchia, storico appello di Ocalan al Pkk: “Cessare la lotta armata”

next
Articolo Successivo

Crisi Spagna, tasse triplicate: studiare e laurearsi è diventato un lusso

next