“Avete fatto caso che anche l’acqua nel lavandino gira in senso contrario rispetto a come gira da voi? Le cose, in Africa, vanno così. Diversamente”.

Avevamo di fronte una dottoressa dello Zimbabwe. Era il 2003. Stavamo girando un documentario per “Le Iene”. Non ero mai stato in Africa. Nell’Africa vera. Dello Zimbabwe sapevo poco o nulla. Il colonialismo, la dittatura di Mugabe. Poche nozioni lette qua e là. Sì, avevo visto in televisione le immagini terribili che venivano da quella terra. Ma arrivare ad Harare, la capitale, e scoprire cosa si intende per “bambini di strada” è un’altra cosa. Ci sono (c’erano: Mugabe, a ritmi regolari, fa sparire anche centomila di questi ragazzi. E difficilmente la stampa ne parla) più di due milioni (2.000.000) di orfani che vivono per le strade. Mangiano le cose che trovano nei cassonetti. Dormono nelle fogne. Vestono con pochi stracci. “I genitori?”. “Sterminati dall’Aids. Ma noi vogliamo spezzare questa catena” ci disse la dottoressa Elisabeth. In una delle zone più povere dell’Africa? Voi volete sconfiggere l’Aids? Impossibile.

Dal 2005 al 2012 la percentuale dei bambini nati malati da genitori sieropositivi – nel distretto di Centenary dove opera il St Albert, l’ospedale della dottoressa Elisabeth – è scesa dal 22,1 al 13 per cento.

Lezione numero uno. L’impossibile è stato reso possibile da un’associazione italiana che si chiama Cesvi. Al Cesvi formano personale medico locale. Aiutano le strutture a diventare indipendenti. Ci siamo legati a loro, non solo per l’incredibile riuscita di progetti come questi, ma per la serietà (il 93 per cento di quel che raccolgono si trasforma in interventi concreti) e per l’onestà (per la seconda volta hanno conseguito il premio europeo della trasparenza nel bilancio). Se andate sul loro sito, ogni cosa è rendicontata. Visto, signori che gestite i finanziamenti pubblici, che si può fare? Certo, non devi avere nulla da nascondere. E poi, per rendere tutto vero, devi poter contare su persone come Elisabeth. “E’ affollato come ospedale”. “Abbastanza: serviamo un bacino di più di 300 mila persone”. Operava, ascoltava, faceva nascere bambini, cucinava. Si metteva alla guida di una ruspa per costruire una diga. E qui inizia la lezione numero due.

Non sapevo fosse, anche, una suora. Per me era una dottoressa, punto. Era venuta in Italia perché malata di tumore. L’ho incontrata a giugno di quest’anno. Era cupa, quasi arrabbiata. Non era la donna solare che, nonostante tutto, avevo conosciuto. “Voglio tornare in Africa tra la mia gente”. “Ma ti devi curare, prima”. “Ascolta, Gabriele: con quello che costano le mie cure potrei guarire tantissime persone. E io voglio stare giù, tra la mia gente. Voglio morire giù, tra la mia gente”. A questo punto, ho provato ad obiettare qualcosa del tipo “ma il lavoro che fai tu non lo può fare nessuno”. Ma sapevo cha aveva ragione lei. E così è rispuntato il suo sorriso. Ovvero la lezione numero tre. Si parla di testamento biologico e accanimento terapeutico in continuazione. Si scontrano teorie, idee, credo religiosi. A me una lezione di laicità l’ha data una suora. Prima di partire ci fece promettere che non avremmo abbandonato i bambini dello Zimbabwe. Domani, dalle 6 del mattino a mezzanotte, su Radio Deejay ci sarà una maratona radiofonica per raccogliere fondi per il Cesvi. Chi riesce, può inviare un sms al 45508 dal valore di due euro (o 5 e 10 euro da telefono fisso).

Perché le promesse si mantengono.

P.S. Il blog va in vacanza e torna a gennaio. A tutti voi: auguri.

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