Era un bel pomeriggio d’ottobre del 1997 e, siccome la gente non ci stava tutta, le porte dell’aula magna del liceo Parini erano state aperte per sfruttare anche il cortile. L’occasione era la presentazione de Il Mago dei Numeri, l’ultimo libro di Hans Magnus Enzensberger, presenti l’autore e un ospite segreto la cui identità era stata tenuta nascosta (ma non troppo) fino all’ultimo.

Per discutere di numeri chi meglio di un ragioniere? E l’Einaudi ne aveva trovato uno, anche se mancato: il ragionier Beppe Grillo, che adesso era là al tavolo, pronto a giurare che il libro di Magnus, come lo chiamava lui, perché il cognome era troppo ostico, lo aveva riconciliato con la matematica.

Anche Magnus avrebbe detto volentieri qualche parola al pubblico e ogni tanto cercava di interloquire, ma era difficile, un’impresa quasi impossibile. Parlava sempre Beppe e non c’era niente da fare: la platea scoppiava in risate irrefrenabili e contagiava il tavolo dei relatori e lo stesso autore.

E’ inevitabile, e lui lo sa bene, quel che succede quando Grillo si trova davanti una platea. Infatti sostiene di non volersi candidare personalmente alle elezioni: è genovese e di certo troverebbe profondamente ingiusto che, a Montecitorio, ai deputati, in aggiunta all’indennità e a tutti gli altri benefit, venisse offerto regolarmente anche uno spettacolo gratuito: il suo.

Gli spettacoli si facevano a teatro per chi comprava il biglietto. In televisione niet, ma non per volere di Grillo. Nel 1996 il capo dell’ufficio legale della Rai aveva sentenziato: “La satira di Grillo sconfina nella denigrazione e nella diffamazione. La Rai manderà in onda il suo recital soltanto se avrà la possibilità di riconfezionarlo, tagliando le battute a rischio”. Risultato: “La Rai sospende lo show di Grillo perchè diffama”.

“Non ha idea di quanto ciò mi riempia di gioia!
– aveva scritto a Indro Montanelli la signora Sestilia Pellicano –  Era pur ora che qualcuno fermasse costui, in qualche modo! Semplicemente, direi che Beppe Grillo dovrebbe decidere cosa voglia fare da grande: se il comico, cerchi prima di imparare come si fa, considerato che l’ immagine che tutti noi abbiamo di lui è quella di un essere che dimena corpo e mani sul palcoscenico, urlando battutacce a squarciagola. Se l’opinion leader, sarebbe opportuno che si documentasse prima di esporre le proprie idee, e si attenesse ad un comportamento più consono e serio”.

“A me, invece, Grillo piace – le aveva risposto Montanelli – Lo considero il più efficace comico in circolazione. Anzi: “comico” non è la parola giusta. Grillo non è un comico, non è un moralista, non è un predicatore: è tutte queste cose insieme. Nel panorama dello spettacolo italiano, dove abbonda il bollito misto, è un’ eccezione ambulante (e urlante). Non soltanto esagera; provoca anche, e insulta, e offende. Ma tutte le categorie di giudizio, con un tipo così, risultano inadeguate. Grillo appartiene ad una specie animale particolare, formata da un solo esemplare: lui. O lo strozziamo o lo applaudiamo. Io, appena posso, lo applaudo. Perché i suoi eccessi, a differenza di quelli di Sgarbi, odorano di bucato”.

Poi però, essendo un po’ snob, aveva espresso anche qualche dubbio: “Non rischiamo che qualcuno lo prenda alla lettera? E’ opportuno che a un personaggio del genere venga concessa la platea della prima serata Rai? Ebbene: su questo punto, mi astengo. Non sono certo che il grande pubblico sia in grado di capire che Beppe Grillo costituisce la versione genovese del folletto dispettoso delle fiabe, un incubo esilarante, il rigurgito della nostra cattiva coscienza. Chissà: forse è meglio che rimanga “off limits”, per il suo stesso bene. Anche se mi mancherà”.

Sono trascorsi quindici anni, Grillo è passato dal teatro alla piazza e, secondo Francesco Merlo, “il grillismo da mediocrità dispettosa sta mutandosi in populismo velenoso”. 

Non sappiamo che cosa direbbe oggi Montanelli, ma un altro toscano, uno che se ne intende, come il professor Giovanni Sartori, scriveva, nel 2007, dopo il V-Day, che “il grillismo non ha sottintesi o implicazioni antidemocratiche” e definiva il populismo “una genuina democrazia «immediata» che nasce dal basso e che, per questo rispetto, è l’esatto contrario di demagogia”. Poi indicava il vero punto debole: “il populismo così definito ha la forza di essere una democrazia embrionale genuina, ma al contempo la terribile debolezza di incarnare un infantilismo politico (direbbe Lenin) incapace di costruire alcunché. Le sue proposte «al positivo» sono, appunto, puerili e inconsistenti”. E talvolta, verrebbe da dire, pericolose, come lo è anche il solo parlare di referendum sull’Euro.

Negli stessi giorni compariva l’intervista, citata da Merlo, a Dino Risi che, nel 1985, aveva diretto Grillo in un film poco fortunato: “La cosa che gli è riuscita meglio è la sua svolta antipolitica: è più attore oggi che fa politica, di quando tentava di far l’ attore. Credo guadagni un sacco di soldi, adesso. Ha capito cosa rende e se la sta inventando. Ha intuito che dire le cose da bar è un’ attività redditizia. Niente di meglio per gli italiani, che aspettano sempre il capopopolo di turno. Ha fatto un po’, con maggior successo, quello che hanno tentato Celentano e tanti altri. Anche Umberto Bossi, se vogliamo”.

Sarà, ma a pensarci bene, chi è stato, negli ultimi anni, l’opinion leader più gettonato nei discorsi da bar e da scompartimento ferroviario? Grillo o Berlusconi?

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