Non più il Messia che predica “speranza e cambiamento” alle folle di adepti. Piuttosto, l’uomo di governo pragmatico, capace di condurre gli americani nel mezzo di una tra le più gravi crisi dell’ultimo secolo. E’ un Barack Obama completamente trasformato quello che tra poche ore scenderà a Charlotte per la Convention democratica. Nel 2008 aveva lanciato la sfida a John McCain dallo stadio di Denver, tra colonne greche e fuochi d’artificio che esplodevano insieme all’entusiasmo dei sostenitori. Questa volta, in North Carolina, il presidente degli Stati Uniti si trova di fronte un Paese disilluso, meno disponibile a inseguire le chimere del cambiamento. Ecco cinque punti dell’agenda che Obama e i democratici devono rispettare se vogliono trasformare la Convention in un successo.

L’ATTACCO A MITT ROMNEY. La Convention repubblicana di Tampa si è conclusa con una buona notizia per i democratici. Mitt Romney non ha entusiasmato (e la performance rantolante di Clint Eastwood non c’entra). Il suo discorso finale, giovedì sera, ha avuto ascolti televisivi bassi, con un calo del 30% rispetto a quelli di John McCain nel 2008. Probabile che il candidato repubblicano, apparso come sempre non particolarmente ispirato, fatichi a fare il salto sperato nei sondaggi. A Charlotte i democratici approfondiranno con ogni probabilità la linea di attacco seguita nei mesi scorsi, insistendo sul passato di Romney a Bain Capital (accuse rafforzate dalla recente indagine del procuratore generale di New York, Eric Schneiderman), sui rifiuti di rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi, sul ruolo nella cancellazione di migliaia di posti di lavoro nelle società acquistate, sui legami con il mondo della grande finanza. L’obiettivo è palese: dimostrare che Romney non è il businessman capace di rimettere in sesto l’economia americana, ma un personaggio controverso che non ha esitato a fare affari sulle spalle degli americani con metodi poco chiari.

UNA SPERANZA PER L’ECONOMIA. Si tratta del capitolo più imbarazzante per Obama. “E’ difficile per un presidente democratico chiedere che gli elettori lo rivotino, quando la disoccupazione continua a superare l’8%”, ha detto il filosofo della politica Michael Walzer. La Convention di Tampa si svolgerà negli stessi giorni in cui verranno resi pubblici i dati dell’occupazione di agosto, che secondo gli economisti saranno poco entusiasmanti, come quelli dei mesi precedenti. A Charlotte Obama deve quindi dire agli americani che nel futuro prossimo le cose andranno meglio e che il programma di Romney e Ryan – tagli alla income tax del 20%, tagli alle tasse per i piccoli imprenditori, taglio alle imposte sulle plusvalenze finanziarie, rialzo dell’età pensionistica, trasformazione del Medicare in un programma di voucher con cui pagare le assicurazioni private, passaggio della gestione del Medicaid agli Stati, smantellamento del ruolo dei sindacati e della concertazione collettiva – è in realtà un attacco alla classe media e un regalo all’aristocrazia economica del Paese. Obama dovrà dimostrare l’assurdità della ricetta repubblicana, che promette 12 milioni di nuovi posti di lavoro (l’economia americana dovrebbe crescere al ritmo più veloce degli ultimi 60 anni) ed esibire la bontà di un programma di crescita controllata e stimolata dal governo federale. In questo senso, il salvataggio dell’industria automobilistica e di migliaia di posti di lavoro, guidata dalla sua amministrazione, potrebbe rappresentare un esempio virtuoso da esibire al Paese.

I BIANCHI E LA CLASSE OPERAIA. E’ vero che Obama ha vinto nel 2008, e potrebbe vincere quest’anno, grazie al voto di giovani, donne, afro-americani, classe media urbana e suburbana. Ma è altrettanto vero che il presidente non può definitivamente consegnare ai suoi avversari la working-class bianca delle aree del Centro. Obama ha sempre avuto un problema con queste fasce di elettori, che alle primarie democratiche del 2008 scelsero Hillary Clinton e poi, alle elezioni generali, John McCain. Anche quest’anno gli operai bianchi voteranno prevalentemente Mitt Romney. Ma Obama deve comunque mantenere una parte consistente di questo elettorato, importante soprattutto in Stati come Ohio, Pennsylvania, Wisconsin, decisivi per la vittoria di novembre. Gli attacchi a Romney e Bain Capital vanno in questa direzione, come pure il ruolo che la Convention vorrà dare a Joe Biden, il vicepresidente gaffeur che ha conservato un rapporto profondo, di fiducia e rispetto, con ampi settori del voto bianco. La Convention di Charlotte dovrà però fare di più. In particolare, rassicurare la working-class che rappresenta lo zoccolo duro di quei “delusi” dai quattro anni di Obama.

IL MESSAGGIO. E’, con l’economia, l’elemento più importante della campagna. E’ escluso che Obama e i suoi riescano a ripetere l’esperienza del 2008. Gli ultimi comizi del presidente nei college e nelle città universitarie hanno raccolto folle molto meno numerose ed entusiaste rispetto a quattro anni fa e c’è preoccupazione anche per l’affluenza alle urne degli afro-americani. Per motivare questi gruppi, la campagna di Obama deve fare di più. Se il messaggio di “hope and change” è irripetibile, c’è bisogno di qualcosa che vada al di là di un appello esclusivamente anti-Romney. Da questo punto di vista l’intervista del presidente ad Associated Press, a fine agosto, è un esempio da non ripetere. Qui Obama criticava Romney e i suoi per “politiche che peggioreranno la situazione delle famiglie della classe media”. Il messaggio puramente negativo – “i repubblicani faranno peggio di noi” – è però destinato a non risuonare nelle teste e nei cuori di un elettorato che vuole qualcosa di più che non una scelta per il “meno peggio”. Se Obama vuole ricostruire la coalizione che lo portò alla Casa Bianca nel 2008, deve ritrovare almeno in parte quegli accenti. Deve, in altre parole, riaccendere passioni ed entusiasmo.

L’UNITA’ DEL PARTITO. A Tampa i repubblicani hanno dato prova di non particolare coesione. A parte la rivolta dei delegati di Ron Paul, la Convention è spesso apparsa come il conflitto di anime e personalità in cerca di visibilità. A Charlotte i democratici devono evitare questa impressione. Non che manchino le ragioni di frizione. Il gruppo di fedelissimi del presidente, David Plouffe, David Axelrod, Valerie Jarrett, Jim Messina, è pochissimo amato dal partito, in particolare dai democratici della Camera e dalla leadership democratica di Debbie Wasserman Schultz, che vorrebbero maggiore accesso alle risorse finanziarie della campagna. Di più. Il sindacato appare in questi mesi nervoso. Accusa Obama di non averlo difeso con sufficiente convinzione di fronte agli attacchi alla concertazione collettiva portati da alcuni governatori repubblicani, in primo luogo Scott Walker del Wisconsin. Scontri e opposte ambizioni devono restare fuori dall’arena di Charlotte. Non sarebbero graditi a un elettorato che negli ultimi quattro anni ha assistito con stanchezza a uno stato di continua fibrillazione politica.

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