C’era una volta il comunismo. Gli Europei di calcio 2012 che cominciano a Varsavia l’8 giugno per terminare a Kiev l’1 luglio sono la prima grande manifestazione calcistica organizzata in paesi dell’ex blocco sovietico dopo la caduta del muro. L’ultima fu l’Europeo 1976 in Jugoslavia, la prossima i Mondiali 2018 in Russia. In Ucraina e Polonia, vent’anni dopo lo smantellamento della cortina di ferro che divideva l’Europa in due blocchi, emergono prepotentemente tutte le contraddizioni politiche, sociali ed economiche dei paesi postcomunisti. Tra burocrazia di vecchio stampo e corruzione di nuova specie, oligarchie economiche che sostituiscono quelle politiche, disagi sociali, violenze, razzismo e corruzione, l’organizzazione di un grande evento sportivo si mostra, ancora una volta, come laboratorio geopolitico per eccellenza per disegnare i nuovi confini del potere.

Tutto comincia il 18 aprile 2007, quando la Uefa assegna, a sorpresa, l’organizzazione degli Europei 2012 a Polonia e Ucraina. Decisione secca, senza nemmeno bisogno di ballotaggio: i due paesi ex sovietici superano la concorrenza della favoritissima Italia (che oggi sta vivendo un momento difficile) e dell’altra candidatura congiunta Croazia-Ungheria. Il grande vincitore è Hryhoriy Surkis, padre padrone della federcalcio ucraina e uno dei 100 uomini più potenti del paese, nonché membro del Partito Socialdemocratico: filorusso e fiero oppositore della rivoluzione arancione. Subito, dall’Italia soprattutto, partono accuse di corruzione. Intervistato nel 2010 dalla Gazzetta dello Sport, l’ex tesoriere della federcalcio cipriota fa le cifre, oltre 9 milioni di euro, e accenna anche ad un interessamento della Germania, da sempre interessata ai destini del suo spazio vitale ad Oriente.

Emerge anche il problema infrastrutture. Il progetto di collegare in maniera rapida ed efficacie città che distano tra loro migliaia di chilometri si rivela troppo ambizioso anche per i nuovi ricchi emersi dal disfacimento sovietico. Nel 2010 la Uefa è sul punto di revocare l’organizzazione dell’evento e affidarla alla Francia. L’organizzazione è in alto mare: mancano stadi, aeroporti, stazioni ferroviarie e collegamenti. Ucraina e Polonia sono un cantiere a cielo aperto. Iniezioni di denaro privato, a compendio dei finanziamenti pubblici statali ed europei, imprimono un’accelerazione decisa. Tra corruzione e tangenti, il budget previsto raddoppia e poi triplica. E giunti al fischio d’inizio tutto, o quasi, è pronto. A Kiev per esempio l’aeroporto è considerato uno dei peggiori al mondo e lo stadio della finalissima è agibile ma sarà completato solo ad Europeo concluso.

L’impronta della vecchia Urss – il ricordo non può che non andare alla gigantesca operazione di ‘pulizia’ messa in atto a Mosca in preparazione delle Olimpiadi del 1980 – si riconosce nella questione del massacro dei cani randagi. Una vera e propria carneficina, con decine di migliaia di povere bestie trucidate nel peggiore dei modi per ripulire casa prima dell’arrivo dei prestigiosi ospiti occidentali. Mentre le contraddizioni del postcomunismo regalano il problema dei prezzi degli alberghi, aumentati a dismisura (fino al 500 per cento) nei giorni della manifestazione. Il risultato è che per partitissime come Francia-Inghilterra, o anche per la finale (in quei giorni a Kiev una notte in albergo costa in media 623 euro), molti biglietti sono rimasti invenduti.

Ma a spaventare ancor più tifosi, e a tenerli lontani da Polonia e Ucraina, sono le gravi situazioni di disagio sociale e politico che attraversano i paesi ex comunisti e hanno portato al ritorno dei nazionalismi, con degenerazioni nel razzismo e nell’antisemitismo. Soprattutto negli stadi. Le curve polacche e ucraine sono le palestre dove avviene l’arruolamento e l’educazione sentimentale di una gioventù allo sbando sotto le effigi del neonazismo: saluti romani, svastiche, boati nei confronti dei giocatori di colore, cacce all’uomo organizzate dagli ultras contro immigrati, zingari e omosessuali. Emblema della difficile transizione dal pre al post comunismo è poi il caso Timoshenko: l’ex primo ministro ucraino incarcerata con le accuse di abuso di potere, truffa ed evasione fiscale.

Il suo caso si può leggere come una battaglia tra libertà e oppressione, ma anche come una faida interna tra gli oligarchi che, dopo il crollo del muro, si sono arricchiti a dismisura appropriandosi delle immense fortune delle compagnie statali che da un giorno all’altro sono state privatizzate. Fino ad arrivare a un mai sopito scontro tra Est e Ovest, come dimostrato dalle minacce di Merkel e Barroso – sostenitori del filo-occidentalismo à la Timoshenkodi boicottare gli europei se la leader ucraina non fosse stata liberata prima dell’inizio della manifestazione. Dichiarazioni fuori luogo e fuori tempo massimo, tra l’ingenuo e l’interessato, che sono l’ennesima dimostrazione di come il calcio sia oramai diventato la prosecuzione della politica con altri mezzi. 

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