E’ uno studio scientifico di quelli destinati a cambiare la percezione corrente, quello pubblicato dalla rivista Enviromental Research Letters: il primo studio su scala continentale delle riserve idriche del sottosuolo africano. E la conclusione è sorprendente. L’Africa sottoterra ha tantissima acqua: 100 volte di più quanto finora si pensasse.

La ricerca, condotta da un team di quattro scienziati, è basata sulla raccolta di dati finora dispersi e sull’esame di mappe e rilevamenti, ricevuti sia dai governi nazionali che da altri studi geologici e geografici su circa 283 differenti bacini idrici. Il team di scienziati valuta che le riserve di acqua potabile contenute nel sottosuolo africano siano nell’ordine di oltre mezzo milione di chilometri quadrati, con un range variabile tra 0,36 e 1,76 milioni di chilometri quadrati. Ovvero, 20 volte la quantità di acqua dolce contenuta nei laghi africani.

La distribuzione dei bacini sotterranei, ovviamente, non è uniforme nel Continente: le riserve più grandi sono sotto i paesi nordafricani e del Sahel, che però sono anche quelli più minacciati dalla penuria idrica: Algeria, Libia, Egitto, Niger, Chad e Sudan occidentale, in pratica, “riposano” su un enorme acquifero custodito dalle sabbie del Sahara, il deserto per antonomasia (sahra, in arabo, vuol dire appunto deserto).

In quella zona, secondo le valutazioni dei ricercatori, il bacino è “spesso” 75 metri ed è, in sostanza, quello che resta dell’acqua che una volta, cinquemila anni fa, era abbondante nell’Africa settentrionale.

Un secondo grande bacino giace tra la Repubblica democratica del Congo e la Repubblica centrafricana, mentre un terzo è nel sud, a cavallo di Namibia, Botswana, Angola e Zambia. Nell’introduzione al loro saggio, i ricercatori avvertono che “non tutta quest’acqua è facilmente raggiungibile per l’estrazione”. Nondimeno, secondo MacDonald, H. C. Bonsor, B. É. Ó Dochartaigh e R. G. Taylor, della British Geological Survey di Edimburgo e del Dipartimento di geografia dell’University college di Londra, in molti paesi africani pozzi “opportunamente collocati e adeguatamente costruiti” possono sopportare un cospicuo aumento dell’estrazione idrica, sebbene “con pause inter-annali per ricaricare le riserve”, che in alcuni casi hanno una “età ciclica” compresa tra 20 e 70 anni, al ritmo attuale di basso e talvolta bassissimo sfruttamento.

Anche la nuova mappa, però, mostra, secondo gli autori, che è molto più problematico estrarre acqua “su larga scala” – per esempio per far fronte alla domanda idrica delle città in rapida crescita – senza compromettere la tenuta dei bacini, che rischierebbero di essere impoveriti in modo irrimediabile. L’obiettivo dello studio, dunque, è proprio quello di arrivare a una “valutazione più realistica della sicurezza idrica e dello stress idrico, attraverso più accurate analisi regionali e locali”, necessarie anche per tenere nel debito conto la differente profondità dei bacini, che, per esempio, nel Sahara, può arrivare fino a 250 metri sottoterra.

Una premessa indispensabile, secondo il dossier, per affrontare le imminenti sfide del continente africano, dove già oggi, si stima che siano 300 milioni le persone senza un accesso stabile all’acqua potabile e dove solo il 5 per cento delle terre coltivabili è effettivamente e regolarmente irrigato. Il rischio, infatti, è che ci sia una “corsa all’acqua sotterranea”, che è “meno sensibile ai cambiamenti climatici superficiali, meno inquinata per il naturale filtraggio del terreno” e ovviamente meno dipendente dalla stagionalità delle piogge e dalla siccità. Senza una gestione attenta delle risorse, dunque, non è improbabile che anche questa nuova ricchezza idrica venga depauperata più velocemente di quanto non si possa ricostituire. Anche perché, avvertono i ricercatori, per quanto “le risorse idriche sotterranee siano la più ampia e più distribuita riserva d’acqua disponibile nel continente africano”, la nostra conoscenza dei sistemi di formazione di questi enormi bacini idrici è tuttora molto limitata e ha bisogno di essere approfondita, a livello locale (specialmente per le zone più vulnerabili all’ipersfruttamento), sia su scala continentale, per capire se e come questi grandi bacini interagiscano tra loro e con il resto dell’ambiente naturale, anche tenendo conto dei cambiamenti climatici. Non solo di quelli planetari, ma anche di quelli locali dovuti alla trasformazione dell’ambiente da parte degli esseri umani ma anche alle modificazioni che lo stesso sfruttamento possibile di queste risorse idriche potrebbe implicare.

di Joseph Zarlingo

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