Nel nostro piccolo orticello italiota, succede spesso che si prendano per verità o per oro colato notizie che vagano nell’etere e nello spazio senza valutarle adeguatamente. Come diceva De André, la notizia “come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca”. E di penna in penna, aggiungiamo noi.

Succede infatti che un gruppo di ricercatori di varie nazionalità, coordinati dal professor Philip Altbach del Center for International Higher Education del Boston College, abbia preparato un volume dal titolo accattivante: Paying the Professoriate, un’analisi delle retribuzioni e delle modalità con cui vengono pagati i professionisti della conoscenza nelle università pubbliche in 27 Paesi del mondo.

Succede anche che il volume, che viene pubblicato oggi da Routledge in Gran Bretagna, venga “letto” dall’Herald Tribune con un articolo di anticipazione. E succede infine che tale articolo venga messo nella penna di un giornalista di Repubblica che ci crea un caso.

Motivo? I professori italiani sono i più pagati d’Europa, addirittura i secondi al mondo. Ebbene sì, sfidando ogni logica apparente, la “casta” professorale (ricercatori compresi) è strapagata.

Carta canta, come dice l’adagio popolare: secondo la tabella dei ricercatori americani un professore ordinario italiano prenderebbe ogni mese, in media, 9.118 dollari ppp (purchasing power parity, un coefficiente che permette di tenere conto delle diversità del costo della vita nei diversi Paesi), un professore associato 6.717 $ ppp e un ricercatore di ruolo 5.029 $ ppp. Tradotti in euro, si tratta rispettivamente di 7.385, 5.440 e 4.073 euro. Ovviamente, come scrive l’Herald Tribune e come ci ha confermato l’autore del libro e coordinatore del progetto, opportunamente contattato, si tratta di importi lordi.

Saremmo quindi secondi dopo il Canada e addirittura primi in Europa.

Wow… finalmente un primato che non sia lo spread.

Ma mentre stappiamo lo champagne per festeggiare degnamente l’evento, per molti di noi inaspettato e addirittura ignoto, facciamo due conti e scopriamo che, forse, i ricercatori americani si sono persi nella babele di cifre senza tenere conto della variabile rappresentata dall’età di accesso ai diversi ruoli, cosa che rende le tabelle ministeriali, divise in 14 classi triennali, poco rappresentative quando si parla di media, cioè il valore tra un minimo (l’inizio della carriera) e un massimo (la fine reale, non presunta). Ma vi sono anche degli errori materiali evidenti.

“Infatti, tabelle dei dati retributivi alla mano, si vede che un ricercatore, assunto nel 2010, prende 1.334 euro netti (1.856 lordi) e, dopo tre anni, sale a 1.667 (2.377 lordi). Dopo 20 anni, cioè quasi prossimo alla pensione, ipotizzando che sia stato assunto a 38 anni (media di ingresso nazionale che la Gelmini non ha scalfito) guadagnerà la bellezza di 2.507 euro netti (3.995 lordi). Il massimo a cui potrebbe arrivare, se raggiungesse 51 anni di servizio (misura del tutto ipotetica visto che il nostro eroe avrebbe allora 89 anni e sarebbe in pensione da 19) sarebbe di 3097 euro netti al mese (5.047 lordi). Secondo gli studiosi di Boston invece il valore medio dovrebbe essere di 4.073 euro mensili. Impossibile, sia al lordo sia al netto.

Un professore associato, al suo ingresso in carriera, con la recente eliminazione del periodo di “straordinariato” (una specie di periodo di prova) guadagna 2.284 euro netti (3.523 lordi) e dopo venti anni ne guadagna 3.118 netti (5.078 lordi). Con 57 anni di carriera, difficilmente raggiungibili (per andare in pensione a 70 anni dovrebbe aver preso servizio quando ne aveva 13, oppure aver recuperato degli anni con la ricostruzione di carriera, cosa non più possibile dopo la legge Gelmini), guadagnerebbe 4.148 euro al mese (7.043 lordi). Gli studiosi americani indicano, in media, 5. 440 euro. Assurdo..

Infine il top di gamma, il professore ordinario, al suo ingresso nel ruolo guadagna 2.896 euro netti (4.678 lordi), che diventano 4.065 netti (6.874 lordi) dopo 20 anni di servizio. Anche per lui il limite massimo è 57 anni di carriera (e vale lo stesso discorso sull’età di pensionamento degli associati), con 5.468 netti (9.640 lordi). Anche considerando adeguamenti di stipendio al costo della vita (peraltro esclusi dalla legge fino al 2015) siamo lontani dai 7.385 euro “in media” indicati dai colleghi americani.”

La domanda quindi è evidente: dove hanno preso quei valori i colleghi americani? E soprattutto dove sta la notizia strillata da Repubblica, visto che i dati non confermano il “caso”? Non lo sappiamo, sappiamo però che la smania di pubblicazione di articoli clamorosi ha portato acqua ai soloni che si spendono da mesi, prima durante il ministero Gelmini e adesso con il ministro Profumo, a sostenere che l’Università pubblica costa troppo, che i professori sono strapagati, che si tratta di fannulloni ecc. ecc.

È noto infatti quante code si formano alla frontiera dell’Italia, formate da giovani ricercatori e professori americani, tedeschi, britannici, giapponesi e svizzeri che, malpagati in patria, si apprestano a entrare nel paese dorato dove saranno coperti d’oro. E mentre contano le banconote, questi fortunati emigranti forse si renderanno conto di varie cose:

– della riduzione del fondo di finanziamento ordinario alle università pubbliche, ormai cronica dal 2009 (sarà mica perché gli stipendi sono troppo alti?);

– delle diverse forme di precariato di giovani ricercatori che a migliaia fanno funzionare le università, con stipendi da fame che somigliano più alle “mercedi” di manzoniana memoria;

– dei ricercatori al primo anno costretti a mendicare adeguamenti salariali che gli atenei non concedono, il parlamento sostiene e il ministero ignora;

– dei ricercatori vincitori ma ancora in attesa di assunzione;

– delle migliaia di studenti destinatari di borsa di studio ma che non la ricevono (in questo, sì, siamo primi al mondo);

– del processo di precarizzazione in corso, con la sostituzione dei pensionamenti con contratti a tempo determinato (vedi i ricercatori a tempo determinato, che costituiranno a breve la principale fonte di forza lavoro intellettuale, con retribuzione immobile per sei/otto anni);

– delle pressioni per aumentare le tasse universitarie.

Dopodiché il ricercatore che cerca il super-stipendio capirebbe di non essere finito nell’Eldorado bensì in una fangosa palude, rifarebbe i bagagli e tornerebbe da dove è venuto…

Il secondo paese al mondo per stipendi ai docenti. Nientemeno…

Il problema non è la fuga dei cervelli, è che quando il cervello parte, il corpo dovrebbe seguirlo.

Per maggiori e credibili informazioni sugli stipendi universitari si rimanda a questo link:

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