Mario Maida, il 61enne ucciso ieri sera nella periferia ovest di Roma, in via Torrevecchia era conosciuto da tutti. E non c’è morto che il giorno dopo non venga descritto come una brava persona, tranquilla, senza nessun giro strano: “Un lavoratore, uno senza problemi, lui e la sua famiglia”, racconta un pensionato che in questa lunga strada periferica che attraversa Primavalle è cresciuto. Poi il ricordo torna al 2005, a quell’omicidio che lo vide coinvolto come unico protagonista; per difendere il figlio, si disse all’epoca. “Ora era in attesa dell’esecuzione della pena”, prosegue il racconto, quasi a cercare una spiegazione, un indizio che possa allontanare lo spettro di una violenza senza un perché, gratuita, che può colpire chiunque. La parola non la pronuncia nessuno, ma appare negli sguardi: vendetta, faida, guerra criminale.

Questa mattina, quando i marciapiedi delle strade di Primavalle erano ancora ghiacciati, i figli sono arrivati davanti al garage dove Mario Maida lavorava da anni. Una piccola discesa, i segni rossi del sangue che segnavano la neve dei giorni scorsi, quasi a comporre il simbolo della doppia disfatta del sindaco Gianni Alemanno, una città caotica e un sfilza di omicidi che riportano agli anni ’80, all’epoca di quelli della banda della Magliana, quando qualche decina di criminali puntavano a dominare sulla capitale.

I due ragazzi tolgono le strisce bianche e rosse che chiudono ad X la scena del crimine, prendono la pompa dell’acqua, puliscono, in silenzio, appena sussurrando, senza guardarsi in giro. Per diversi minuti si accaniscono su quelle macchie, quasi a voler eliminare la rabbia e, forse, la paura. C’è qualche amico di famiglia, gente con la tuta da meccanico, colleghi, forse, dell’ultima vittima della Roma criminale. Non hanno nessuna voglia di parlare, di ricordare, di ragionare ad alta voce sui moventi. In tanti – sottovoce – azzardano la pista della vendetta, per quell’omicidio che Mario Madia aveva compiuto sette anni fa. Ma qualcosa non torna. Era uscito dal carcere tre anni fa, racconta chi lo conosceva bene, ed aveva subito ripreso la sua attività di meccanico. Con lui lavora un figlio e, sulla stessa strada, a poche centinaia di metri, la moglie gestiva un negozio. Dal 2005 nessuno ha tentato la vendetta: “Non sarebbe stato difficile – spiegano – lui girava tranquillo, senza timore, senza guardarsi le spalle; spesso si tratteneva la sera dopo la chiusura a parlare in strada, quando i negozi erano già chiusi”. Nessuna minaccia, nessuna preoccupazione. Una vita senza sussulti, tra bollini blu, revisioni e marmitte da riparare.

L’ultimo colpo della criminalità romana appare il giorno dopo come un episodio in fondo normale, senza grandi clamori. In fondo banale. L’apparenza di normalità della vittima – che per la giustizia era a sua volta un omicida – rende ancora più cupa la mattina dopo l’agguato, in via Torrevecchia. Da questa strada normale, contornata da palazzine anni ’80 e da negozi senza grandi pretese, partono le arterie che attraversano le zone più malfamate della zona ovest di Roma, dove solo qualche mese fa venne ucciso un ragazzo trentenne. Un regolamento di conti, si disse in quel caso. Tutta colpa della droga, spiegano oggi gli abitanti, che di fronte all’impennare dei traffici si limitano ad abbassare lo sguardo.

Le chiacchiere al bar cadono sulla neve ancora da spalare, sul freddo polare, sui marciapiedi ghiacciati. In fondo in giro, su via di Torrevecchia, non c’è neanche una pattuglia della polizia, come un giorno qualsiasi. E il pericolo si chiama oggi abitudine, la sconfitta che arriva quando si perde ormai il conto dei morti. La parola mafia, nella periferia romana, non si pronuncia, è qualcosa che qualche volta si ascolta nei telegiornali o si legge tra le righe dei quotidiani. E’ appena un ombra, una sensazione che disturba, un cattivo pensiero da allontanare, mentre abbassi lo sguardo e cerchi di pensare ad altro.

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