Lo scontro sui dati è appena cominciato. La Cgil parla di un’adesione media del 60 per cento e a supporto dei suoi numeri fa riferimento al campione statistico messo a punto con la società di rilevazione Tecne-Italia, che si è occupata della campagna elettorale di Renata Polverini e viene utilizzata da società come Telecom Italia e Adnkronos. Il ministro Sacconi parla di una “Italia minoritaria” che è scesa in piazza mentre per il ministro Brunetta la percentuale reale di pubblici dipendenti che ha scioperato è solo del 3 per cento, cioè circa centomila persone. Tante quante sono scese in piazza solo nei cortei di Roma e Milano, un dato poco attendibile.

Al di là dei numeri, però, lo sciopero generale è riuscito. A Roma abbiamo visto una manifestazione molto partecipata e anche molto attenta ai contenuti del comizio di Susanna Camusso (che non brilla certo nella efficacia retorica) così come è stato significativo il corteo di Milano e significativi i tanti cortei che hanno attraversato il Paese. E partecipati sono stati anche i cortei del sindacalismo di base.

In giornate come queste sono le sfumature che possono fare la differenza: il nervosismo di Sacconi, andato in tv in tutta fretta a ribadire, puntiglioso, che di cambiare l’articolo 8, quello che colpisce lo Statuto dei lavoratori, “non se ne parla nemmeno”; oppure, l’intervista del segretario della Uilm a Rainews in cui annuncia analoghe mobilitazioni del proprio sindacato.

Ma più di tutto a spiegare la giornata è l’imbambolamento del governo, costretto a cambiare ancora la manovra, ovviamente inasprendola, e a comportarsi come un pugile suonato. Anche la richiesta di fiducia che sarà posta al Senato è segno di un esecutivo al capolinea. A far riuscire lo sciopero è dunque anche il fallimento del governo. La Cgil si rimette così al centro dello scontro come l’opposizione più efficace al governo e non a caso riunisce in piazza anche l’opposizione di centrosinistra, “costringendo” Bersani a sfilare accanto a Vendola e a Di Pietro.

La domanda che conviene porsi, però, dopo una giornata di questo tipo è una delle più classiche: “E ora?”. La Cgil ha già annunciato una mobilitazione a oltranza. Ma, come ha scritto Paolo Flores D’Arcais, lo sciopero è l’arma più importante e dopo la sua proclamazione una lotta prosegue solo con delle escalation. E quindi?

In queste ore a Roma, in piazza Navona, ci sono una ventina di tende igloo pronte a rimanere per la notte di fronte al Senato della Repubblica per provare a imitare l’indignazione spagnola. La stessa Fiom rilancia una iniziativa prolungata. Un ampio cartello di associazioni, sindacati, partiti della sinistra, settori del Popolo viola sta organizzando una manifestazione nazionale per il prossimo 15 ottobre raccogliendo l’invito lanciato dagli stessi Indignados spagnoli.

Insomma, lo sciopero potrebbe avere dato il via a una resistenza democratica anche se la solidità delle proposte è tutta da verificare. Quello che questa giornata lascia sul campo è che esiste nel Paese una volontà di non piegare la testa e di non lasciarsi sopraffare dalla speculazione, dai diktat delle banche centrali e dai profitti delle banche private. Esiste una disponibilità che attende segnali più espliciti da parte della politica e dello stesso sindacato. E la Cgil, dopo la giornata di oggi, non può esimersi dall’avanzare proposte. Se ha vinto una mano ha ora l’obbligo di dare continuità alla propria protesta e di provare a vincere anche la partita. Che a questo punto è chiara e netta: la modifica strutturale della manovra che, però, passa ormai per la cacciata di questo governo. Ma questo occorre dirlo anche al Pd e al presidente Napolitano.

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