Commemorare è giusto o sbagliato? E ricordare per legge ha senso? In un Paese come il nostro ormai incapace di costruire memoria, diviso tra gli affanni di una classe politica ansiosa di liberarsi del proprio passato e l’incapacità delle istituzioni di delimitare in positivo gli spazi della memoria nazionale, a tenere insieme il patto fondativo della nostra memoria sono oggi, sempre più spesso, il dolore e il lutto che scaturiscono dal ricordo delle “vittime”, vittime di questo e quello, della Shoah, del terrorismo, dei disastri ambientali, delle mafie…

Lo spiega bene lo storico Giovanni De Luna nel suo recente saggio La Repubblica del dolore (Feltrinelli, 2011) dimostrando come l’attuale patto memoriale si fondi essenzialmente sul ruolo centrale della vittima, con una conseguente parcellizzazione del panorama memoriale. La memoria finisce così per frammentarsi, per risolversi in una lista di mancanze e torti da riparare (come se si potesse): una memoria in negativo, una tempesta sentimentale che investe le istituzioni, sovraccaricate di giorni predisposti dal legislatore per il ricordo.

Si delinea così uno “sconcertante dilemma” che resterà senza soluzione, perché da una parte ci sono le ragioni dello storico, analitiche e di indubbia efficacia, dall’altra ci sono quelle delle vittime che nel ricordare agli altri, a chi non sa, nomi e circostanze che altrimenti sparirebbero dal discorso pubblico, finendo in un dimenticatoio angoscioso, aiutano se stessi nella lenta, dolorosa, lunghissima rielaborazione del lutto.

Tra tanti esempi che si possono fare, c’è quello di una giovane donna napoletana che da sola ha ingaggiato una lotta infaticabile contro l’oblio, la rimozione, la distorsione della memoria. Alla sua lotta ha dovuto poi aggiungere un supplemento di coraggio per resistere a una legge arcaica che non ha mai smesso di scagliare sui figli le colpe dei padri, quali che siano, con forza di maledizioni.

Lei si chiama Serena Lamberti, ha 28 anni, un lavoro precario, una casa altrettanto precaria, una bimba piccola. Il padre, diciamolo subito, è l’ex magistrato Alfonso Lamberti. In mezzo c’è una bambina morta ammazzata il 29 maggio 1982 in un agguato camorristico: si chiamava Simonetta, aveva dodici anni ed era la sorella di Serena. Una scarica micidiale di colpi la raggiunse mentre era in macchina con suo padre, allora procuratore capo di Sala Consilina, nei pressi di Cava dei Tirreni, al ritorno da una gita al mare. I colpi sordi e ravvicinati erano diretti al giudice, che riportò ferite lievi, ma quelli mortali arrivarono a lei, per sbaglio, piovendole addosso come grandine, e lei per sbaglio morì (in certi posti si muore per sbaglio molto meglio che altrove: viene facile, veloce e quasi indolore).

Serena Lamberti è nata esattamente un anno dopo la morte della sorella. Non ha potuto conoscerla ma non per questo ha scelto di rimuoverla dalla sua vita. Al contrario, ha coinvolto migliaia di persone, ha smosso montagne d’indifferenza per fissarne il ricordo. Lo fa prima di tutto per se stessa, perché ne ha bisogno. Perché quella morte le ha straziato la vita, ancora prima che nascesse. Ma soprattutto chiede giustizia perché, a distanza di quasi trent’anni, l’assassinio della sorella non ha ancora un mandante.

Nel 1987 la Corte di Assise di Salerno ha condannato all’ergastolo Francesco Apicella, riconosciuto da un testimone alla guida dell’ auto che affiancò quella del magistrato e dalla quale furono esplosi i colpi che uccisero la bambina. Poi più niente. Si aspetta. Si spera. E quando si è costretti a dipendere dalla speranza per avere giustizia, qualcosa va male e va male per tutti.

Nei giorni scorsi un altro colpo. Le hanno sventrato la casa, un piccolo appartamento ai Quartieri Spagnoli, mentre era lontana da Napoli. Le hanno portato via oggetti, ricordi, pochi soldi, mettendo a soqquadro ogni stanza, ogni buco, persino l’oblò della lavatrice. Nei dintorni nessuno ha visto niente, nessuno ha sentito niente (nel fitto reticolo dei quartieri che ha una densità abitativa impressionante?). Forse l’azione maldestra e abietta di qualche rubagalline, forse no. E’ presto per dirlo. Qualcuno però ha voluto vederci un’intimidazione.

di Carmen Pellegrino
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