Ieri ho letto dell’ennesimo pezzo neomelodico “Il mio amico camorrista” che inneggia al “sistema” della “cantante” Lisa castaldi: “…Il mio amico camorrista un uomo pieno di qualità, con la paura ed il coraggio se ne va a braccetto. Il mio amico camorrista rischia la vita e la libertà ma per la gente di strada una carezza non ci sta…“. Credo che queste parole si commentino da sole.

Prima con la sceneggiata napoletana di Mario Merola (anni ’70 –‘ 80) – considerato, quando morì, un guappo buono dal sindaco di Napoli – e di Pino Mauro e in seguito coi neomelodici: spesso abbiamo assistito ed assistiamo ad una vera e propria giustificazione-esaltazione della figura del camorrista. Questo tipo di musica ne racconta le gesta, facendo apparire come sia dura la vita per chi ha scelto o meglio di chi si è trovato costretto a scegliere questa strada, eroi di una guerra inevitabile e giusta. Questa musica vive di un  florido e ricco mercato discografico gestito dal “sistema” in ogni suo passaggio: dalla produzione alla distribuzione. C’è una omogeneità sociale tra chi produce, chi esegue e chi ascolta questa musica, omogeneità dovuta all’appartenenza ad una determinata fascia sociale che spesso vive della stessa economia illegale o al limite della legalità, quindi una struttura economica che crea di riflesso una sua sovrastruttura.

Nel 2006 si espresse anche l’allora ministro dell’interno Giuliano Amato: “Il piano contro la camorra avrà successo solo se faremo vedere che “‘a nuttata” non passa per i camorristi. E, se vinceremo, i neomelodici dovranno cantare altre canzoni“. Purtroppo così non è stato. Partendo da tali prospettive, non è difficile capire, pur non giustificandoli, episodi come le rivolte del quartiere di fronte ad un arresto: la camorra, oltre a dare letteralmente “da mangiare” ad intere famiglie spesso offre un’identità, un “io sono” alle giovani generazioni, le più esposte alla fascinazione del “sistema”, che vivono nell’incubo di un futuro negato dalla mancanza di lavoro, frustrate da una società fondata sul consumo e sull’apparenza. Il “sistema” dà, a queste generazioni, la possibilità di riscattarsi da una vita vissuta ai margini dell’impero, riempiendo in questo modo, e sostituendosi ad esso, un vuoto di potere dello stato. C’è bisogno di capovolgere dall’immaginario collettivo l’idea che tende a fare apparire i criminali e chi vive d’illegalità, come persone che nella vita non hanno avuto scelta. Idea che inevitabilmente porta a giustificare le loro azioni e di conseguenza il “sistema”.

L’antropologo Marino Niola sostiene che: “Le analisi del fenomeno mafioso spesso privilegiano la dimensione politico giudiziaria e quella socioeconomica mentre il peso dei valori culturali viene quasi sempre sottostimato“.

Proprio in questi giorni esce il nuovo disco dei Kalafro: “Resistenza sonora” prodotto dalla Relief Records col contributo del “Museo della Ndrangheta” di Reggio Calabria nato in memoria di chi ha lottato contro una delle più potenti organizzazioni criminali al mondo. I Kalafro è una posse calabrese che (r)esiste in terra di Ndrangheta e che col fucile del raggamuffin dichiara guerra ai clan: “Mentre il Presidente mente al PM di Milano / ad Arcore è nascosto il vero Provenzano / e se dici che la mafia è un’invenzione di Saviano / la camorra ricicla il denaro del Vaticano“.

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