Shanghai – Eccoli i padroni del futuro. Aspettano, pazienti e orgogliosi. Schierati in code che si snodano a labirinto e che non finiscono mai. Aspettano ogni giorno in centinaia di migliaia, anche sotto bufere di pioggia e di vento. Sono rilassati e sereni, mentre tra raffiche d’acqua scorrono le ore dell’attesa, tre, quattro, cinque. A renderli quasi invulnerabili una molla portentosa: la voglia di specchiarsi nel successo conquistato. Lo straniero che in questi giorni si mescola con loro e visita il cuore dell’Expo di Shanghai, e cioè il grandioso padiglione della Cina, ha  la sensazione di avvicinarsi a una verità emozionante, palpabile, quasi fisica, e insieme ambigua perché innesta la storia vittoriosa della rinascita di un popolo con la storia di un’autocancellazione. La bandiera del grande riscatto nazionale che settanta milioni di visitatori cinesi sono corsi a venerare in questa iperbolica Expo che chiuderà tra poche ore, quasi disertata dai cittadini degli altri Paesi ma congestionata dai cittadini cinesi, somiglia infatti in maniera impressionante alla bandiera dell’Occidente, ne è la sua  imitazione dilatata a dismisura, un vessillo esagerato intessuto di un benessere immaginato a base di consumi e ancora consumi.

Addentrandosi in questo colossale  mondo delle meraviglie, identico a una Las Vegas ingigantita, a uno sterminato videogioco avvenieristico, si è costretti a predere atto che l’antagonista e insieme il modello inseguito dai padroni del futuro è uno solo: gli Stati Uniti.

Il percorso all’interno della fantastica pagoda-forziere  che concentra le battaglie vinte inizia con una proiezione, il concentrato della riscossa. Si parte dall’anno 1980. Il destino luminoso inizia da lì. Per evitare di parlare di Mao. Di lui si è persa ogni traccia, missing per sempre. Neppure  rinnegato, semplicemente rimosso. Anche se sopravvive sulle banconote, come un polveroso personaggio storico. Il filmato introduttivo all’esposizione è sfrenatamente propagandistico: anno dopo anno i sorrisi sullo schermo si fanno sempre più lieti e si spalancano su appartamenti sempre più popolati da elettrodomestici e televisori, con  famigliole copiate dalla pubblicità americana anni Cinquanta, intente a spalancare frigoriferi stracolmi e a festeggiare in linde casette sempre più ampie e attrezzate. Un inno sfrenato al conformismo.

Gli occhi stranieri si incantano ad ammirare l’animazione di un antico dipinto, “Lungo il fiume durante la festa di Qingming”, o il meraviglioso carro trainato da cavalli recuperato insieme ai guerrieri di terraccotta. Ma  il cuore dell’Expo cinese parla d’altro.  Il titolo “Better city better life” suona soltanto come una vaga promessa perché certo non bastano i pannelli solari, le pale eoliche e qualche piantina spalmata sulle pareti degli edifici a compensare lo sperpero di energia e a rendere ecosostenibile una simile corsa.

La sfida e contemporaneamente l’imitazione dell’America è ovunque a Shanghai, dentro e fuori dai recinti dell’Expo. Nella selva di grattacieli che si allarga di giorno in giorno lungo il fiume, nei giganteschi gadget architettonici, l’edificio a forma di apribottiglia, o quello a forma di valigia, nei vagoni che corrono sotto il fiume tra suggestioni da luna park, nell’atmosfera da festa di Natale, con gli alberi dei viali illuminati da milioni di lampadine come al Rockfeller Center, nei centri commerciali di un lusso esagerato, tutte le marche più costose del mondo in vetrina, marmi bianchi, orchiedee e palme, commesse in tailleur nero e tacchi da vertigine. Come a Miami. La tv persevera con i suoi i notiziari cauti e controllati. Ma il resto della programmazione dei cinquanta e più canali visibili a Shanghai sembra inventato da un Berlusconi locale. Quiz e ancora quiz, soap opere, gare di niente, pubblicità martellanti, minigonne e scollature ovunque anche se per ora magicamente intoccati dalla volgarità, e una miriade di imitatori. Il migliore visto in questi giorni è un Elvis Presley piccoletto, ciuffo, basettoni, costume di raso con lustrini e colpo di pube micidiale.

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