John MacCain e Carly Fiorina

Per farsi un’idea di quanto il denaro conti in politica, basta venire in California. Le repubblicane Carly Fiorina, candidata al Senato, e Meg Whitman, in corsa per la carica di governatore, sono state definite le “golden girls”. Non a caso. Fiorina, ex-Ceo di Hewlett-Packard, ha finora speso 70 milioni di dollari per la campagna (il suo portavoce ha spiegato che non sono soldi suoi, ma contributi elettorali. Fiorina, per vincere le primarie, aveva comunque tirato fuori dal suo conto personale quasi sei milioni). Whitman ha fatto di meglio: 113 sono i milioni spesi sino a questo punto dall’ex-Ceo di eBay, ben 73 escono dal suo conto.

Le “candidate dorate” repubblicane sono in buona compagnia. L’ex-agente di borsa Barbara Boxer, senatrice democratica e rivale di Fiorina, ha in banca 6,5 milioni di dollari che attendono di essere spesi. E’ il suo argent de poche. Un altro democratico, Jerry Brown, in corsa per diventare governatore, si attesta sui 27 milioni di dollari. E tanto scalpore ha suscitato il dottor Ami Bera, fino a qualche mese fa un perfetto sconosciuto, che è riuscito a raccogliere due milioni di dollari. I soldi vengono dalla nutrita comunità di indiani-americani della California, che vede un proprio figlio, il dottor Bera, correre per il Congresso. Oltre all’affetto dei suoi, Bera ha suscitato l’invidia ammirata dei rivali, che non si capacitano di aver dovuto rinunciare, a favore di uno sconosciuto, a ben 2 milioni.

La politica, in America, non è del resto mai stata cosa da poveri. Il politico più malmesso del Congresso è il democratico del Massachussetts Barney Franck, che ha un reddito di 900 mila dollari. In tempi di crisi economica e penuria di lavoro (la California ha il 12,5% di disoccupati), la ricchezza dei Palazzi diventa però oggetto di indignazione e strumento di lotta politica. Fiorino accusa Boxer di essere una miliardaria nascosta. Brown sostiene che la ricchezza di Whitman è un elemento di imbarbarimento. Il populismo strisciante rende le accuse ancora più violente.

In realtà tutti sanno che la politica costa, e che poter contare su un buon patrimonio di partenza, e contatti influenti, ha sempre aiutato. Soprattutto in California. Lo Stato è troppo vasto, troppo diverso – per composizione etnica, sociale, geografica – per essere raggiunto con i mezzi tradizionali: comizi, porta a porta, telefonate. E’ la ragione per cui il Tea Party, movimento dal basso, con un forte radicamento sul territorio, qui non riesce a sfondare. Quello che conta davvero tra questi suburbi e vallate e deserti è la televisione, la possibilità di inondare le case dei 37 milioni di californiani con centinaia di spot e messaggi pubblicitari. Costosissimi.

C’è poi un altro elemento, più simbolico e psicologico. La California è il paradiso perduto dei repubblicani. Per nove elezioni su dieci, fino agli anni Novanta, lo Stato restò saldamente nelle mani dei repubblicani (questo era il regno di Ronald Reagan, governatore a Sacramento dal 1967 al 1972). Poi, nel 1992, arrivò Bill Clinton, ancora amatissimo da queste parti, e la California passò ai democratici. Oggi lo Stato è una vasta macchia blu sulle cartine elettorali, e il suo politico più influente, un vero boss da queste parti, si chiama Nancy Pelosi, non a caso eletta a San Francisco, capitale del progressismo fricchettone.

Per i repubblicani sarebbe quindi un punto d’onore rompere l’egemonia democratica nello Stato più potente d’America. E’ questa la ragione per cui think-tank conservatori, imprese, miliardari texani stanno facendo affluire nello Stato milioni e milioni di dollari (la liberalizzazione dei finanziamenti elettorali, decisa dalla Corte Suprema, favorisce l’operazione). Ed è questa la ragione per cui i democratici stanno puntando molto sulla difesa dei propri senatori e deputati minacciati. La politica è, anche, una questione di simboli. Barack Obama arriva venerdì a Los Angeles per una serie di incontri e rally elettorali. L’obiettivo è, guarda un po’, fare cassa per Brown, Boxer e gli altri.

di Roberto Festa (inviato negli Stati Uniti)

Una collaborazione Il Fatto e Dust.it

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