Oggi pubblico un altro articolo del numero 3-4/2010 del trimestrale Libertaria, il piacere dell’utopia che sarà presto in vendita nelle librerie in Italia (da Acri a Volterra, passando per Torino, Milano, Firenze, Roma…) e all’estero (Barcellona, Gerusalemme, Lione, Lugano, Montpellier, Parigi, Saint Imier, San Francisco, Sydney)

La società del troppo

di Giorgio Triani

Nella società attuale l’eccesso si è elevato a regola. Un eccesso che divenuto famelico si autoalimenta. Mentre si esaspera la distanza fra chi ha e chi non ha beni, lavoro, acqua… Ormai le soglie di criticità e sostenibilità sono state tutte superate. Allora come uscire da questo vortice inarrestabile? Uscendo dall’ingorgo, cioè «fermandosi». Questo è il messaggio che lancia Giorgio Triani, sociologo e giornalista, docente di sociologia della comunicazione all’università di Verona, autore del recente libro L’ingorgo. Sopravvivere al troppo (Elèuthera, 2010) e di Sedotti e comprati (2005), La società dello zapping (2001), Buona TV (1999), Casa e supermercato (1996) e Bar sport Italia (1994)

Tutto e di più. Tutto e subito. Tutto a tutti. Sempre di più. Ancora un po’, fin che ce ne sta. Fin che non se ne può più. Queste in sintesi, ovviamente «estrema», le caratteristiche della «società dell’eccesso» dove il troppo è diventato normale e il senso della misura e dei limiti qualcosa di arcaico. Questo tipo formazione sociale ormai strutturato come un sistema vero e proprio rappresenta la fase (iper)matura della società dei consumi, caratterizzata, per un verso, da una continua, generalizzata e velocissima crescita quantitativa, che coinvolge le merci, i mercati e le persone, e per l’altro dal venire meno, quasi esaurirsi, delle tradizionali categorie di riferimento della nostre esistenze materiali e relazionali. A partire da quelle fondamentali di spazio e tempo.

Che significa, infatti, dire ora piccolo o grande, alto o basso, scarso o abbondante, lontano o vicino nella società delle reti (internet, telefonini, ipod, ipad…) e dell’abbondanza, dove si può essere (virtualmente) in più posti ma dove nello stesso posto, un ipermercato, ci stanno più di 40 mila referenze merceologiche; dove globale e locale, per effetto precipuo di globalizzazione e internettizzazione, sono diventati concetti (economici e geografici) relativi; dove i jumbo jet diventano giganteschi, le navi da crociera enormi, i grattacieli più alti e i centri commerciali sterminati. Ma nello stesso tempo in cui i notebook diventano più piccoli e leggeri e si afferma l’infinitesimamente piccolo delle nanotecnologie. Dove, insomma, il grande diventa grandissimo e il piccolo piccolissimo e dove non c’è record che non venga continuamente battuto, in una corsa all’esagerazione che quasi sempre è anche rincorsa all’accelerazione. Cioè a fare sempre di più in sempre minor tempo. A muoversi a tutta velocità potendo anche stare fermi, spinti da quella fantastica «velocità immobile», che secondo Paul Virilio sta rendendo sempre più piccolo il nostro pianeta.

Naturalmente questo attivismo frenetico, questa mobilità incontinente producono un sentimento ubiquitario («Ovunque sei, sei ovunque», Tim) prossimo al delirio di onnipotenza e spettacolarmente espresso dalla pubblicità: «lo pensi, lo fai» (Virgilio). Un’esortazione, questa che conferma come ormai non ci sia quasi più, persino materialmente, il tempo di chiedersi se ciò che si sta facendo ha senso, conviene economicamente, comporta reali vantaggi, produce maggiore benessere. L’eccesso elevato a regola è infatti famelico e si autoalimenta. Se è vero che «basta» è una parola in via di estinzione, se non già scomparsa, al pari di tutti i diminutivi e vezzeggiativi (un po’, abbastanza, così e così). Mentre si impone e spopola il linguaggio, al pari del tempo, contratto. Accorciare, abbreviare (la strada, un discorso, un processo produttivo, e così via), fare presto, il prima possibile, cioè subito, istantaneamente (un caffè, il collegamento a internet, il pagamento di un pedaggio…) diventano imperativi sociali che non ammettono repliche o renitenti in un mondo che continua a lievitare in modo esponenziale e a tutta velocità.

Non c’è infatti fenomeno sociale, ambito economico, settore produttivo, modalità di consumo o pratica quotidiana che non presenti situazioni di crescita anomala. Perché ci si trovi in auto o davanti al televisore, a tavola o sulla spiaggia, a una conferenza o a uno snack-bar, in volo o alle prese con il carrello della spesa la realtà con cui si deve fare i conti è invariabilmente segnata dall’enormità. Che è tale anche quando si manifesta come estrema penuria o addirittura assenza. Ossia, come s’è già accennato, quando il troppo (di rumore, turisti domenicali, siti internet, mostre d’arte, festival) è troppo; ma anche quando il poco è pochissimo. Potendo pure accadere che risulti contestuale questo doppio movimento. Ossia che cresca sia il livello dei redditi sia quello dei debiti; sia i ricchi sia i poveri; sia il mercato del lusso sia quello del low cost; sia le professioni specializzate sia il lavoro despecializzato; sia i denutriti sia i sovrappeso; sia i consumi di acqua minerale sia il numero di persone alle quali non è garantito il diritto all’acqua. Oppure che, in modo altrettanto paradossale, il vortice di notizie e messaggi commerciali al quale siamo quotidianamente costretti finisca con il rendere sempre più indistinguibili gli emittenti e disattenti i destinatari.

Realtà e razionalità

In realtà non ci si dovrebbe però stupire, perché la contraddizione è solo apparente: i fenomeni estremi prima descritti hanno, infatti, la stessa matrice, si inscrivono nello stesso segno. Per quanto nuovo o di nuova generazione, visto che da sempre per dirla con un caposaldo del pensiero razionale (architrave della cultura e delle società occidentali) ciò che è razionale è reale e viceversa. E la realtà e la razionalità hanno una loro implacabile logica, forte del principio di non-contraddizione, cioè della capacità di riuscire sempre, alla fine, a ricomporre tutte le diverse contraddizioni. Ma nella società dell’eccesso è appunto il troppo, anche di opposto segno, che si impone e che impone la sua legge (assoluta). Quasi che una cosa (qualsiasi cosa) e il suo contrario non fossero, non potessero più essere in relazione di reciprocità e consequenzialità. Talché, per riprendere un paio degli esempi citati, all’aumento della ricchezza o della gente in forma e magra dovesse necessariamente corrispondere la riduzione della povertà o dei «ciccioni».

Ora infatti di qualsiasi fenomeno crescono irresistibilmente sia il segno più sia il segno meno. Prova è che sul piano economico globale la crescita dei milionari e miliardari è contestuale a quella degli indigenti e nullatenenti, mentre su quello sociale si osserva come la vecchia distinzione fra chi ha (have) e chi non ha (have not) sia stata sostituita da quella che distingue fra chi ha molto (have a lot) e chi ha niente (have nothing). Insomma tesi e antitesi non riescono, o perlomeno non sembrano più in grado di trovare una sintesi. Di risolversi in una rassicurante via di mezzo, in un ragionevole compromesso, in un conveniente riequilibrio.

A ribadire in tanti altri modi e forme che la «società del troppo» è una realtà, ancora in fieri, mutevole e in cerca di assestamenti, però pienamente dispiegata, soccorrono numerosi esempi tratti da ambiti diversi, ma la cui comune cifra «esagerata» è appunto la prova di trasformazioni sociali ampie e profonde. Il cui carattere di assoluta e dirompente novità è segnalato dall’inedita convergenza di tre rivoluzioni concomitanti. Come ha scritto recentemente il futurologo ed esperto di intelligenza artificiale Raymond Kurzweil, teorizzatore della legge dei «ritorni accelerati», secondo la quale nel ventunesimo secolo non godremo di soli cento anni di progresso, ma dell’equivalente di 20 mila anni, bisogna mettere in conto gli effetti congiunti e sinergici scaturenti dalle innovazioni nel campo delle biotecnologie, nanotecnologie e intelligenza artificiale. Con ciò dimostrando che anche in questo caso, come nei tanti altri in cui non si fa più, o non si può più fare, una cosa alla volta (come quando si è davanti al computer con 4-5 finestre aperte o si seguono, facendo zapping, 3-4 programmi televisivi contemporaneamente), o non si può più essere una «sola» persona, cosa o attributo merceologico (visto che ormai o si è «multi» o non si è), anche le rivoluzioni si sono adeguate all’implacabile regola moltiplicatoria del «3 x 1».

Ovviamente si devono fare i conti (e la tara) con la «retorica esponenziale» che ha puntualmente accompagnato e accompagna l’annuncio di una nuova scoperta scientifica, la comparsa sul mercato di un nuovo software o gadget elettronico, il lancio di un prodigioso farmaco. Tuttavia è indubbio che il progresso tecnico-scientifico procede allo stesso modo (potente e veloce) con cui viene rivoluzionata la nostra vita quotidiana in senso quantitativo e qualitativo, però sempre nel segno dell’eccesso. In accordo con uno spirito dei tempi che ha elevato al quadrato, forse al cubo, anche la cosa più semplice e che in forza di ciò esige che anche le inezie siano sensazionali e le cose eclatanti incommensurabili.

Dicono infatti le statistiche (diventate per inciso il genere preferito dai media vecchi e nuovi) che gli italiani hanno bevuto 43 miliardi di tazzine di caffè nel 2008 e si sono scambiati 420 milioni di email giornaliere nel 2009 (nel mondo 200 miliardi); che al cittadino di una media città europea servirebbero 820 anni per provare tutti i prodotti in commercio; che un telefonino, ancorché super come l’i-phone, offre 70mila applicazioni; che il milione e 100 mila libri che stavano su kataweb.it nel 2004 sono diventati 3 milioni e 745 mila nella libreria di webster.it nel 2009. Ciò esageratamente in linea con tendenze di più lungo periodo: come l’incremento del mercato dei falsi del 1000 per cento dal 1993 al 2003, dei consumi energetici mondiali cresciuti in un secolo (dal 1900 al 2000) del 1.480 per cento.

La società mobile-immobile

«Cent’anni di moltitudine», per usare una parafrasi letteraria, hanno cambiato profondamente, in molti casi rivoluzionato, usi, costumi e consumi. Ma la percezione di costante e progressivo miglioramento che ha accompagnato questa rivoluzione ha ormai ceduto il passo a un preoccupato disincanto. Al concreto timore che perfino la «società mobile», che già procede a tutta velocità, annunciata come un potente fattore di liberazione da incombenze e costrizioni di ogni tipo, si riveli un ulteriore fattore di immobilità. Visto che al momento la teorica capacità di fluidificare la vita di tutti, atttraverso le possibilità offerte dalla teconologie di «esserci senza andarci», di vedersi senza incontrarsi fisicamente, cioè teleincontrarsi e telelavorare, materialmente si traduce nel crescente aumento di auto, aerei, merci e persone circolanti sulle strade e nei cieli. Dunque in un ulteriore acceleratore di congestione dell’ambiente fisico e di contrazione dei tempi di vita personali, familiari e amicali. Fenomeno questo riscontrabile in ogni campo da un’infinità (giusto per esagerare) di dati, fra cui s’impongono quelli del collasso del trasporto aereo mondiale e di internet, previsti entrambi per il 2011 e la perdita in 20 anni (dal 1986 al 2005) da parte delle giovani coppie italiane del tempo trascorso in famiglia (circa 20 minuti).

Quasi superfluo sottolineare che la società del troppo è una società che sembra sempre in procinto di collassare, di scoppiare, di non farcela più a tenere ritmi esasperati, a mantenere costanti e continui tassi di crescita. Ma è un’impressione. Un sospetto. Almeno per il momento. Perché se è vero che il «rischio» (di un crollo, di un esplosione, di un arresto definitivo) non è più solo un’eventualità, un accadimento remoto, bensì, come ha scritto Ulrich Beck, una possibilità ormai fisiologicamente incorporata a tutta quanta la nostra realtà (come mostrano i tanti disastri di questi anni, ultimo in ordine di tempo quello petrolifero del Golfo del Messico), un collasso sistemico non sembra essere prossimo. Non essendo peraltro auspicabile. La predicazione della vicina fine del mondo (nel 2012, secondo le vulgate futurologiche più recenti, ma riprese da un lontano passato) continua a essere esercizio da Cassandre improvvisate ancorché ispirate dalla fede. Più seriamente si può ipotizzare e ragionevolmente prevedere un nuovo, grande e prossimo passaggio epocale. Un cambiamento di paradigma (costretto) che investirà tutta quanta la nostra società e l’intero pianeta. E che perciò invita tutti noi, perlomeno le persone e i movimenti più avvertiti e consapevoli, a riconsiderare l’attuale modello di sviluppo. A fare concretamente i conti con i suoi limiti. A convincersi che l’abbondanza trasformata in eccesso e combinata con una altrettanto smodata propensione a consumare tutto alla massima velocità (per restare al solo ambito dei consumi) costituisce ormai una patologia economica e sociale. Osservabile non solo nelle sempre più frequenti emergenze planetarie o nelle tanto grandi questioni internazionali e nazionali aperte. Ma soprattutto a livello delle nostre vite quotidiane. Che risultano sempre più concitate, affannate, complicate. Visto che non abbiamo mai tempo, mentre le cose da fare aumentano continuamente; che non c’è esigenza materiale soddisfatta che non ne produca di nuove; che le complicazioni crescono in modo direttamente proporzionale alle promesse di riduzione.

Chi si ferma non è perduto

In questa luce quale dovrebbe essere la vera urgenza? Certamente rendere meno urgenti le nostre esistenze. Con la consapevolezza però, come ha scritto Alexander Mitscherlich a proposito della spietata inabitabilità della città contemporanea, che la cosa fondamentale, «come spesso accade alle cose fondamentali, non è una cosa, ma un atteggiamento. Solo quando si muta atteggiamento, si scopre qualcosa d’importante». Nel nostro caso che l’accumulazione ha ormai rendimenti che continuano a decrescere, in numerosi casi al punto che a imporsi è addirittura il segno meno. Visto che volere, desiderare e avere concretamente a disposizione sempre di più e sempre più cose nuove non genera più automatica soddisfazione, ma evidenti svantaggi. Che procedono al passo (anch’esso veloce, anzi velocissimo) dei rischi e delle paure che incombono in un mondo e in una società ugualmente terrorizzati dall’idea di avere troppo e di non avere niente. «Sazi e disperati» oppure «malessere da benessere» sono espressioni ormai logore. Abusate. Non lo è invece ribadire cose molto semplici: proprio e solo ciò che più temiamo e che si inscrive nell’ordine dell’austerità e della sobrietà, comunque del desiderio capace di differire il suo soddisfacimento, può restituirci a una dimensione meno distruttiva del consumo, oltre che di noi stessi e della nostra vita. Forti della consapevolezza che ormai le soglie di criticità e sostenibilità sono state tutte e in ogni campo superate. Dunque che chi si ferma, o almeno comincia a considerare quella prospettiva, non è perduto. Ma, al contrario, è sulla buona strada per salvarsi.

Articolo Precedente

“Il darwinismo è un falso”. Il Comune di Milano accoglie l’ispiratore del negazionismo

next
Articolo Successivo

Tutti al centro commerciale

next