Non una vera e propria web tax. Ma una misura transitoria e volontaria per far pagare le tasse in Italia ai gruppi che operano su Internet. L’emendamento all’articolo 1 della “manovrina” presentato dal presidente della commissione bilancio della Camera, Francesco Boccia (Pd), è una soluzione di compromesso. Ha però il merito di riaprire un dossier spinoso, che l’ex premier Matteo Renzi preferì rinviare alle calende greche nonostante la necessità per lo Stato di racimolare denaro da destinare al rilancio dell’economia. Quanto vale per le casse pubbliche? Secondo le stime di Boccia, circa un miliardo già nel 2017. Ma la cifra potrebbe lievitare fino a 5 miliardi se, in corso d’opera, il governo di Paolo Gentiloni avesse il coraggio di obbligare i grandi gruppi dell’economia digitale a pagare le tasse in Italia per il fatturato realizzato sul territorio nazionale.

In questa fase, tutte le stime vanno comunque prese con le pinze perché tutto dipenderà dalla versione definitiva dell’emendamento. Al momento, il testo prevede solo la facoltà (e non l’obbligo) per le aziende del web di seguire le orme di Google che ha riconosciuto di avere una stabile organizzazione in Italia e ha sborsato circa 300 milioni per chiudere il contenzioso con il fisco italiano. Nessuna tassazione, insomma, per le multinazionali con ricavi consolidati superiori al miliardo e un fatturato locale da oltre 50 milioni. Ma solo l’opportunità di “ammorbidire” i termini di uno scontro con lo Stato italiano che si prospetta ormai inevitabile. Con quali vantaggi? Evitare lunghi e costosi contenziosi con l’agenzia delle Entrate, ottenere un dimezzamento di sanzioni e interessi, oltre che limitare danni reputazionali. “L’obiettivo di questo emendamento è invogliare le multinazionali della rete a pagare le tasse in Italia – spiega Boccia a ilfattoquotidiano.it – Si tratta di una base di discussione che si può ampliare. Personalmente continuo a sostenere che bisogna tassare le imprese sulla base del business realizzato sul territorio nazionale anche se la filiale italiana ha un solo dipendente perché esiste comunque una stabile organizzazione aziendale che produce reddito”.

Finora, invece, i grandi gruppi del web hanno sempre sostenuto di non avere una “stabile organizzazione” in Italia, ma di svolgere attraverso la filiale nazionale solo una mera attività di consulenza. Sulla base di questa struttura aziendale, non hanno mai pagato le tasse nel Paese in cui il reddito viene prodotto. Nel 2015, ad esempio, Google e Facebook hanno versato in Italia 2,4 milioni di tasse, cioè appena lo 0,3% del loro giro d’affari. Ma secondo le stime dell’Ufficio parlamentare di bilancio, se i due gruppi fossero stati tassati sulla base del fatturato della pubblicità online raccolta in Italia, avrebbero dovuto invece sborsare 19,4 milioni di tasse. “In buona sostanza, i giganti del web sostengono che la filiale italiana sia un semplice intermediario e pagano le tasse solo sull’attività di consulenza, non su tutto il fatturato prodotto nel Paese – spiega Fulvio Sarzana, avvocato esperto in materia di diritto dell’informazione – Una simile impostazione falsa però completamente la realtà. Ed è inevitabile che prima o poi il legislatore debba intervenire non solo per questioni di equità fiscale, ma anche di tutela dei consumatori”.

Se, infatti, una società dichiara di non avere una struttura fissa in Italia, un eventuale contenzioso sarà particolarmente complesso e oneroso perché richiederà notifiche internazionali, spostamenti all’estero e una consulenza specifica. Nel momento in cui, invece, la società riconosce la sua stabile organizzazione in Italia, tutto diventa più facile. Senza contare che per il futuro il governo potrà contare su nuovi flussi di imposte da parte di imprese che operano in un settore in forte crescita (+130% fra il 2011 e il 2015 a 143 miliardi di euro). Denaro con cui sarà possibile finanziare nuove misure a sostegno dell’economia.

Per l’onorevole Boccia, le risorse reperite con la web tax “transitoria” dovranno andare a rimpinguare il fondo per la non autosufficienza con almeno un centinaio di milioni e serviranno ad abbattere la pressione fiscale. Non è escluso però che il denaro racimolato con le tasse sui big della rete possa evitare al governo le discusse modifiche all’Aiuto alla crescita economica (con annesso regalo alle banche in crisi) o magari essere in parte utilizzate a sostegno degli operatori di telecomunicazioni, alle prese con grandi investimenti per far crescere la rete e margini in deciso assottigliamento. O ancora possano servire a supporto degli editori tradizionali nel pieno della rivoluzione internet.

Di certo, se dovesse passare l’emendamento di Boccia, la web tax transitoria, anche solo in versione soft, sarà comunque un primo importante passo verso un cambiamento epocale in cui non esisterà più una differenziazione fra economia tradizionale e digitale. Naturalmente non è oro tutto quel che luccica perché, come ha spiegato il ministro del Tesoro, Pier Carlo Padoan, sarebbe meglio affrontare la questione in un contesto europeo perché “soluzioni nazionali hanno delle controindicazioni e possono avere conseguenze indesiderabili”. Fra queste la possibilità di un aumento dei prezzi sul web che rischia di riversarsi sull’utenza finale frenando la crescita del commercio elettronico. Un tema particolarmente importante perché si parla ormai di un business con un fatturato da 23 miliardi l’anno (+16% rispetto al 2017), pari all’1,5% dell’intero prodotto interno lordo italiano. Non proprio noccioline, come direbbero gli americani.

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