Oltre un terzo dei fondi stanziati dall’Italia per l’aiuto allo sviluppo viene usato per l’accoglienza ai profughi nella Penisola. Su 426 milioni a disposizione dell’Agenzia italiana per la cooperazione nel 2016, poi, solo 25 sono stati destinati a progetti di sviluppo realizzati dalle ong. E la lista dei principali Paesi di provenienza dei migranti economici, categoria che peraltro spesso si sovrappone ai rifugiati, non coincide con quella degli Stati in cui lavorano le organizzazioni non governative finanziate da Roma. Da due settimane il dibattito politico sull’immigrazione è dominato dalle accuse alle organizzazioni non governative che si occupano di soccorso in mare. Ma quante risorse la politica italiana mette davvero a disposizione delle ong per “aiutare a casa loro” – come da slogan di chi è favorevole ai rimpatri forzati – gli abitanti del mondo in via di sviluppo? Per fare chiarezza, ilfattoquotidiano.it ha analizzato i flussi dei finanziamenti italiani ai Paesi poveri veicolati attraverso le organizzazioni senza fini di lucro.

Dalla Nigeria al Sudan: ecco da dove parte e da cosa fugge chi sbarca in Italia – Per capire se i soldi finiscono dove dovrebbero, bisogna partire dall’Africa. E in particolare dai Paesi da cui arriva il maggior numero di migranti che sbarcano sulle nostre coste. La rotta del Mediterraneo, secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, ha portato in Italia nel 2016 181.436 migranti ai quali si aggiungono le oltre 5mila vittime del mare. Il primo Paese di provenienza, con 37.551 arrivi, è stato la Nigeria, che ha un tasso di povertà record e un’aspettativa di vita tra le più basse al mondo e da cui 2 milioni di persone sono sfollate nelle aree limitrofe per fuggire al gruppo terroristico Boko Haram. Questo è un ottimo esempio del perché il confine tra i cosiddetti “migranti economici” e i rifugiati politici è spesso labile. Ma anche chi parte dal Bangladesh, unico Stato di partenza non africano tra i primi dieci per numero di arrivi, scappa sia dalla povertà (un terzo degli abitanti è sotto la soglia), dalla sovrappopolazione e dalla corruzione (il tasso è tra i più alti al mondo) sia da gruppi terroristici come Jamaat-ul-Mujahideen Bangladesh, fedele allo Stato Islamico. Storia simile per l’Eritrea, da cui sono arrivate via mare 20.718 persone in fuga dall’obbligo militare che può protrarsi anche per tutta la vita, il Gambia, da cui il dittatore Yahya Jammeh è fuggito a inizio 2017 dopo 23 anni di dittatura, il Mali, il Sudan e la Somalia, dove le recenti guerre civili e le scorribande di al-Shabaab, Al-Mourabitoun e Ansar ad-Din, che opera anche in Senegal (altro importante Paese di provenienza) hanno provocato la fuga di milioni di persone. L’89% di chi arriva per mare, poi, passa dalla Libia, instabile, teatro di una lotta per il potere tra fazioni e infestata da gruppi terroristici che controllano ampie aree. Molti migranti, privi di documenti e vittime di violenze e abusi durante la loro permanenza, acquisiscono così il diritto di richiedere la protezione internazionale.

Roma nel 2016 ha stanziato 4,8 miliardi. Ma il 34% va all’assistenza in Italia – A livello globale, nel 2016 l’Aiuto pubblico allo sviluppo ha toccato quota 142 miliardi di dollari. L’Italia ha stanziato lo 0,26% del suo pil, quasi 4,85 miliardi di euro (in crescita del 20% sul 2015): è la voce che ingloba tutte le forme di cooperazione internazionale. Il 54% finisce a agenzie delle Nazioni Unite, fondi internazionali per lo sviluppo, agenzie di cooperazione europee e istituzioni comunitarie, compresi per esempio Unhcr ed Europol. È la parte destinata a quella che si definisce cooperazione multilaterale. Il resto è per la cooperazione bilaterale, quella “uno a uno”. Ma, secondo uno studio di OpenPolis e Oxfam, il 53% della cooperazione bilaterale – circa 1,6 miliardi di euro, il 34% degli aiuti totali – resta in Italia, per contribuire alla gestione dei rifugiati. Soldi rubati all’”aiutiamoli a casa loro”. Nel 2010, quella percentuale era inferiore all’1%.

Solo il 5% dei fondi della Cooperazione va a progetti di sviluppo delle ong… – Dal 2014 a gestire in modo centralizzato i fondi destinati alla cooperazione bilaterale è l’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo, vigilata dalla Farnesina e nata dopo una riforma che il settore attendeva da 30 anni. Il budget previsto per il 2017 è intorno ai 500 milioni (la cifra esatta dipenderà da quanto il ministero prenderà da alcune voci variabili come il 5 per mille). Fino al 2015, la fetta di torta che restava alle ong era del 5%: meno di 25 milioni. E nel 2016, su 426 milioni gestiti, il dato è stato quasi identico. A questo vanno aggiunti 40 milioni per i progetti legati alle emergenze umanitarie. Per il 2017, la direttrice dell’Agenzia Laura Frigenti ha annunciato un bando, da questo momento aperto però anche alle aziende, dal valore totale di 40 milioni di euro, diviso in quattro lotti. Il principale (da 18 milioni) è destinato all’Africa Subsahariana, priorità della cooperazione italiana.

…e i Paesi da cui arrivano più migranti sono fuori dai radar – Ma, tra quelli nella lista dei “prioritari”, sono pochi i Paesi a forte pressione migratoria. Del tutto fuori Nigeria e Costa d’Avorio. Dentro alcuni Paesi del Corno d’Africa, storico bacino di richiedenti asilo diretti in Italia, come Etiopia e Somalia, mentre l’Eritrea è fuori. I primi due posti sono occupati da Paesi che non hanno a che fare con la rotta migratoria del Mediterraneo centrale: si tratta di Afghanistan e Palestina, destinatari insieme del 7% delle risorse totali. Fino al 2015, stando a quanto scritto sul Documento triennale di programmazione e indirizzo 2016-2018, il Paese che ha ricevuto più aiuti in Africa è il Mozambico. Il legame con l’Italia è forte: nel 1992 gli accordi di pace tra le fazioni in guerra civile sono state firmate a Roma, nella Comunità di Sant’Egidio.

Il Senegal è invece a pieno titolo nella short list dei Paesi prioritari ed è anche destinatario di diversi progetti finanziati attraverso l’EU-Africa Trust Fund, il fondo fiduciario da 1,8 miliardi di euro mirato al contrasto all’immigrazione irregolare al quale l’Italia contribuisce con 10 milioni. L’aiuto della cooperazione italiana si concentra sul progetto Padess, del valore di 17,8 milioni (di cui 2,8 donati e 15 in crediti di aiuto, una forma molto vantaggiosa di prestiti). Nelle intenzioni deve contribuire al rilancio del Paese in settori come l’agro-alimentare e l’edilizia e in più contribuire con programmi di sostegno ai più poveri. Si accompagna a un’iniziativa del presidente senegalese Macky Sall, a fine mandato, che si chiama Piano per il Senegal emergente.

L’Etiopia, al terzo posto tra i Paesi prioritari, riceve il 2,51% degli aiuti italiani, con 166 progetti in corso: il principale è il complesso idroelettrico Gilgel Gibe II e Gibe III, finanziato dal 2008 dalla Farnesina con oltre 200 milioni di euro e realizzato da Salini Impregilo. Secondo diverse organizzazioni ambientaliste, le dighe bloccherebbero il flusso del fiume Omo in Etiopia e Kenya, impoverendo, in realtà, il territorio. In Sudan, altro Paese nella lista, il Ministero ha stanziato 1,5 milioni di euro per aiutare le popolazioni della regione dei Laghi, tra le più povere della zona. In Eritrea, Paese fuori dalla lista dei prioritari, nel 2017 l’Italia ha ricominciato a cooperare attraverso un progetto dedicato alle università finanziato con 700mila euro.

Il Fondo Italia Africa? Per formare le forze di sicurezza africane – C’è poi il Fondo Italia Africa: 200 milioni che però saranno usati, come ha spiegato a febbraio il ministro Angelino Alfano, per “rafforzare la frontiera esterna per evitare le partenze dei migranti irregolari”. In sostanza serviranno a equipaggiare e formare le forze di sicurezza che lavorano in Paesi di transito (Niger, Tunisia e Libia). E per la cooperazione allo sviluppo resterà qualcosa? Quando Nino Sergi, presidente emerito di Intersos e policy advisor di Link 2007, uno dei principali network di ong italiane, a inizio anno ha visto le bozze del decreto ministeriale, temeva che non sarebbero rimaste nemmeno le briciole. Ma da Luigi Maria Vignali, direttore centrale per le questioni migratorie ed i visti del ministero degli Esteri, titolare del fondo, ha ottenuto rassicurazioni sul fatto che un terzo dovrebbe restare per la cooperazione allo sviluppo e anche le ong potrebbero accedervi proponendo progetti. “Il fondo va erogato entro dicembre – spiega Sergi – vedremo come andrà”. Giangi Milesi, presidente di Cesvi, è più scettico: “C’è ancora tensione per l’uso che verrà fatto di quel fondo. Già il viceministro Mario Giro ci aveva dato garanzie rispetto ad una sua destinazione anche alle ong”.

Il Piano Marshall per l’Africa di Juncker: 44 miliardi solo sulla carta – Sempre con la speranza di contenere il fenomeno migratorio, nel settembre 2016 il presidente della Commissione europea Jean Claude Juncker ha lanciato il Piano europeo per gli investimenti esterni, ribattezzato Piano Marshall per l’Africa: sulla carta 44 miliardi di euro per fare impresa in Paesi africani in via di sviluppo. Ma i soldi veri sono meno di 5 miliardi, che dovrebbero moltiplicarsi attraverso un “effetto leva” basato sull’attrazione di investimenti privati. L’ingegneria del fondo è opera dell’italiano Roberto Ridolfi, a capo della direzione per la Crescita sostenibile e lo sviluppo della Commissione Europea. Il piano attende da cinque mesi il via libera finale dal Parlamento europeo.

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