Non è stato Silvio Berlusconi il primo ideatore del lavoro di cittadinanza, ripresa nel fine settimana da Matteo Renzi. A inventarsi – e mettere in pratica – lo strumento che l’ex premier ha lanciato come alternativa al reddito di cittadinanza caro al M5S è stato, nel 2015, l’allora governatore pugliese Nichi Vendola. Si trattava però non di un sostegno economico, ma di un intervento a favore di persone già titolari di un ammortizzatore sociale con l’obiettivo di facilitarne il futuro reinserimento nel mondo del lavoro. Insomma, una tipica forma di “politica attiva“. Tasto quanto mai dolente per il segretario dimissionario del Pd. Le politiche attive, infatti, avrebbero dovuto essere il secondo pilastro del Jobs Act, accanto al contratto a tutele crescenti. Ma la vittoria del No al referendum costituzionale ha azzoppato l’intero progetto messo a punto dal suo esecutivo per rilanciarle. Così suona quasi come una beffa, da parte sua, ricordare che “garantire uno stipendio a tutti non risponde all’articolo 1 della nostra Costituzione, che parla di lavoro e non di stipendio”.

Il progetto di Vendola per “incrementare l’occupabilità” – E’ stato Il Giornale a ricordare che l’ex presidente di Sel, negli ultimi mesi alla guida della Regione Puglia, aveva varato il “lavoro minimo di cittadinanza“. “A coloro che sono percettori di ammortizzatori sociali proviamo non soltanto a dare forme di integrazione del reddito, ma anche percorsi di formazione per cui possano riagganciare il lavoro, rientrare nel mercato e non morire di ammortizzatori”, aveva spiegato il predecessore di Michele Emiliano. Per i potenziali beneficiari non era previsto un compenso: non si trattava infatti di garantire loro un reddito, visto che ricevevano già il trattamento di cassa integrazione o l’indennità di mobilità, ma di “incrementarne il livello di occupabilità“, come spiegava il bando pubblicato nel maggio 2015, e “valorizzare le competenze di base e professionali della persona”. Come? Coinvolgendoli in attività come la manutenzione del patrimonio pubblico, i servizi di sostegno scolastico o la “pulizia e igiene dell’ambiente urbano”, nell’ambito dei “Cantieri di cittadinanza”, progetti comunali per la realizzazione di opere e servizi di pubblica utilità. In questo modo la “spesa assistenziale” sostenuta per gli ammortizzatori sarebbe stata “riconvertita in senso produttivo“.lavoro-minimo-puglia

Il flop della sperimentazione – La sperimentazione, finanziata con 7,5 milioni di euro tra fondi regionali e comunali, è stata a dire il vero un mezzo flop: “A livello regionale sono pervenute istanze pari a circa 1.170 unità che non consentono il pieno utilizzo delle risorse finanziarie assegnate allo scopo”, si legge nella Determinazione del dirigente sezione Politiche del lavoro datata 7 aprile 2016 che ha messo fine all’intervento. Inoltre “è stato presentato un numero esiguo di progetti a cui possono aderire i beneficiari di Lavoro minimo, la qual cosa non ha dato la possibilità agli eventuali beneficiari della misura di completare l’iter dell’istanza di partecipazione”. Ha avuto maggior fortuna la sperimentazione rivolta ai disoccupati di lungo periodo e agli inoccupati iscritti ai Centri per l’impiego (con priorità a disabili, ex detenuti o donne vittime di violenza o sfruttamento), per i quali era previsto, sempre a fronte di un impegno nei Cantieri, un sostegno economico di 23 euro al giorno fino a un massimo di 500 euro al mese: ne hanno beneficiato 1.200 persone a fronte di 8mila domande presentate.

Il Giornale sottolinea che un intervento del genere, esteso a tutti i disoccupati italiani, costerebbe 18,6 miliardi, oltre l‘1% del pil. Ma si tratta di una stima per eccesso, sia perché i 500 euro mensili sono un tetto massimo sia perché sembra difficile che i Comuni possano inventarsi progetti sufficienti per mettere al lavoro 3,1 milioni di persone, ultimo dato Istat sui senza lavoro italiani (senza contare gli inattivi).

La riforma dei Centri per l’impiego fatta a misura di vittoria del Sì – Il lavoro di cittadinanza in salsa pugliese, comunque, era una vera e propria forma di politica attiva, mirata a facilitare il rientro nel mercato della persona una volta terminato il periodo di percezione dell’ammortizzatore sociale. Quello che dovrebbero fare gli oltre 500 Centri per l’impiego di tutta Italia, le cui performance però hanno sempre lasciato a desiderare. E’ per questo che uno dei decreti attuativi del Jobs Act ha ridisegnato l’intero sistema dei servizi per l’impiego assegnando alla nuova Agenzia nazionale per le politiche attive (Anpal) il compito di coordinare le politiche in materia, sulla base di linee di indirizzo e livelli minimi di prestazioni da garantire sull’intero territorio nazionale stabilite dal ministero del Lavoro. La nuova architettura ha però un difetto di origine: l’esecutivo guidato dal segretario uscente del Pd l’ha costruita partendo dal presupposto che passasse la riforma costituzionale Renzi-Boschi, in base alla quale l’assistenza nella ricerca di un’occupazione sarebbe diventata competenza esclusiva dello Stato. Il 4 dicembre ovviamente non è andata come sperava l’ex premier. E questo, tra il resto, significa che le Regioni mantengono competenza concorrente sulla materia. Così l’Anpal non può gestire direttamente i Centri e l’auspicata standardizzazione degli interventi resta un miraggio.

Assegno di ricollocazione al via con due mesi di ritardo. E senza garanzie sui livelli di servizio – Il presidente dell’Anpal Maurizio Del Conte sta cercando di andare avanti lo stesso, previo accordo (a questo punto indispensabile) con i governatori in Conferenza Stato-Regioni. A metà febbraio, con due mesi di ritardo sulla tabella di marcia, l’agenzia ha scritto ai primi 25mila disoccupati titolari di Naspi da almeno quattro mesi che sperimenteranno il nuovo assegno di ricollocazione: una somma da 250 a 5mila euro che verrà pagata al Centro per l’impiego o all’agenzia per il lavoro privata che riesce a trovargli un’occupazione. La cifra effettiva dipenderà dal suo “livello di occupabilità” e dalla tipologia di contratto: arriverà a 5mila euro se si tratta di un disoccupato poco appetibile per età o competenze e l’ente gli trova un posto a tempo indeterminato, si fermerà a 250 euro per i contratti a termine di durata inferiore ai 6 mesi (opzione prevista solo se il disoccupato risiede in Campania, Puglia, Basilicata, Calabria e Sicilia). I problemi sul tavolo però sono tanti: l’Anpal, non potendo gestire direttamente i Centri, non avrà a disposizione una “rete nazionale dei servizi” come prevedeva il decreto ma si limiterà a stipulare convenzioni con i singoli enti locali. L’obiettivo di superare le storiche disparità Nord-Sud resta quindi lontano. Ed è probabile che alla fine risultino favorite le agenzie private, che a differenza dei centri pubblici possono stipulare con il disoccupato contratti di somministrazione (gli ex interinali) sia a termine sia a tempo indeterminato e poi “prestarlo”, anche per periodi brevissimi, alle aziende che ne hanno bisogno. Con effetti non proprio virtuosi, se la speranza resta quella di rendere il mercato del lavoro italiano meno precario.

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