Ha fatto discutere l’uscita certo poco felice di Beppe Grillo sui transgender. Uscita poco felice per sensibilità e stile, certo. Ma ancor più infelice e banale l’accusa, prevedibile, di omofobia che gli è subito piovuta addosso a reti unificate dai sacerdoti del politicamente corretto e dai censori di tutte le discriminazioni presunte o reali che non siano quelle legate al classismo capitalistico. Poniamo una domanda seria e centrale per inquadrare il problema. Perché l’ordine del discorso mediatico, televisivo, accademico e giornalistico ha scelto da tempo di santificare la figura del transgender? Risponderei così.

Proprio come, sul côté economico, il liberismo aspira ad abbattere il limite politico statale, così, sul versante sessuale, mira a dissolvere il concetto stesso di limite naturale, dissolvendo l’idea di una natura non risolta integralmente nella società e nella storia. Il mito neoliberistico del transnazionale si ridispone, nell’ambito della sessualità, nell’elogio mediatico permanente della figura del transgender, ossia di colui che ha varcato ogni confine, ogni limite e ogni frontiera naturale, ogni residuo della tradizione storica.

Come il transnazionalismo liberista mira al mercato globale deregolamentato e libero da ogni sovranità nazionale democratica, così il transgenderismo eretto a modello mediatico si fonda sulla deregulation sessuale, sull’abbattimento di ogni limite e di ogni sovranità legati all’ambito della natura e della biologia. Nel quadro del fiorire delle nuove categorie promosse dai gender studies, ove il transgender si pone come variante sessuale del migrante e il queer del precario, la vetusta eterosessualità viene rubricata a categoria tra le tante, nella completa rimozione tanto della sua rilevanza nell’orizzonte dell’eticità borghese e proletaria, quanto della sua centralità ontologica per la riproduzione della razza umana: l’eterosessuale è ridefinito come cisgender. La “cisessualità” – spiega la neolingua dei gender studies – corrisponde alla classe di identità di genere in cui si dà una concordanza tra l’identità di genere del singolo individuo e il comportamento o ruolo considerato appropriato per il proprio sesso. Secondo la più diretta offensiva rivolta contro l’eticità familiare borghese e proletaria, i gender studies collocano l’eterosessualità su un piano di indistinzione, nel trionfo della separazione tra sessualità e vita etica familiare.

Quello animante l’ideologia gender come teoria sessuale corrispondente alla precarizzazione delle identità coincide, dunque, con il sogno di De Sade, espresso nelle pagine della Nouvelle Justine (1797): “L’impossibilité d’outrager la nature est, selon moi, le plus grand supplice de l’homme”. In tale sogno si riflette il nichilismo della forma merce, con la sua segreta teleologia della violazione di tutto ciò che può essere violato e dell’oltrepassamento di ogni misura.

Il corollario che ne discende, e che struttura la visione del mondo propria dell’ideologia genderista, è quello per cui, anche sul versante sessuale, tutto è illimitatamente possibile e, dunque, illimitatamente consumabile. Sta qui il segreto della dinamica di androgenizzazione della società a capitalismo flessibile: l’individuo unisex tende a una androginia completa, in quanto non deve essere né uomo, né donna, per poter essere contemporaneamente entrambe. Deve, cioè, trascendere ogni limite e poter essere tutto senza inibizioni naturali o morali, biologiche o culturali.

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