Non solo la Clinton, non solo i democratici. A uscire sconfitti dall’elezione a presidente degli Stati Uniti di Donald Trump sono stati anche i media e soprattutto i giornali. Da una parte ignorati dagli elettori (Trump non aveva ricevuto endorsement da nessun giornale, quasi un record) e dall’altra tutti convinti che Hillary Clinton avesse davanti a sé un percorso liscio verso la Casa Bianca. Non è stato così e ora il New York Times fa mea culpa. “I media – ha scritto il giornalista Jim Rutenberg non si sono accorti di quello che accadeva intorno a loro”. L’articolo è stato intitolato A ‘Dewey Defeats Truman’ Lesson for the Digital Age. Una lezione per l’era digitale che dovrebbe cambiare il modo di pensare e di lavorare dei giornali pari solo al titolo Dewey defeats Truman con il quale il Chicago Daily Tribune uscì in edicola il 3 novembre 1948, dando per certa la vittoria del repubblicano Dewey sul democratico Truman (che invece divenne presidente).

Tutta la tecnologia e i mezzi più sofisticati, dice il Nyt, non hanno potuto salvare il giornalismo americano da ciò che stava succedendo nel Paese. “Nessuno è riuscito a prevedere una notte come questa”. E’ stato qualcosa di più di un fallimento: “E’ molto di più dell’aver sbagliato i sondaggi, perché si è trattato dell’incapacità di percepire la ribollente rabbia di una parte così vasta dell’elettorato americano, che si sente abbandonato all’interno di una ripresa economica che non coinvolge tutti e tradito da una serie di accordi commerciali che considera una minaccia al proprio posto di lavoro voluta dall’establishment di Washington, da Wall Street e dagli organi di informazione”. E’ per questo quindi che i giornalisti non hanno messo in discussione i sondaggi e anzi hanno descritto i sostenitori di Trump – scrive il New York Times – come quelli che non avevano il contatto con la realtà. “E alla fine è stato il contrario”.

Il Nyt paragona questo atteggiamento di giornali e tv a quello già avuto prima del referendum sulla Brexit. Così giornalisti e opinionisti hanno tenuto il punto, dice uno dei giornali più celebri e autorevoli al mondo, anche quando è emerso che l’Fbi stava facendo altre indagini sui computer di Hillary Clinton. La vittoria, scriveva l’Huffington Post, sarebbe dovuta essere sostanziale anche se non travolgente. Un’idea alla quale i giornali sono stati affezionati fino all’ultimo: ancora martedì sera il New York Times dava le probabilità di vittoria della Clinton all’84 per cento. Poi a un certo punto cambia tutto. Finché l’anchorman John King della Cnn è stato il primo ad ammettere che “noi non stavamo avendo una conversazione basata sulla realtà”. Un’ammissione, sottolinea il Nyt, “straordinaria”. “Se i mezzi di informazione non sono riusciti a rappresentare uno scenario politico basato sulla realtà, allora vuol dire che non sono riusciti a svolgere la loro funzione fondamentale“.

Certo i giornali sono stati influenzati dai sondaggi, scrive Rutenberg, ricordando come Mike Murphy, uno stratega repubblicano, alla MsNbc martedì notte ha detto: “La mia sfera di cristallo è stata infranta in atomi”. Ma c’era di più, dice il New York Times. C’era che il problema era più grande dei sondaggi. “E’ stato chiaro che qualcosa si era rotto nel giornalismo che non è riuscito a tenere il passo con l’umore anti-establishment che ha messo sta ribaltando il mondo”.

D’altra parte, aggiunge il Nyt, “la politica non è fatta solo di numeri” e “i dati non possono sempre catturare la condizione umana che è il sangue della politica americana”. Se quei sondaggi avessero dato una situazione di maggiore incertezza, prosegue Rutenberg, forse i giornalisti avrebbero fatto di più il proprio lavoro, anche di approfondimento delle forze-motore della vittoria di Trump. “Forse avremmo saputo di più”, scrive il New York Times, delle proposte di Trump.

Ciò che è incredibile, per il Ny Times, è vedere quante volte i media non si sono accorti dei movimenti populisti che hanno scosso la politica nazionale almeno dal 2008. Il Tea Party per esempio, ricorda Rutenberg. Fino all’esplosione inattesa di Trump. “E dopo ogni fallimento, il giuramento di imparare la lezione”. Imparata sempre in ritardo. Rutenberg cita tra gli altri lo scrittore conservatore Rod Dreher che aveva definito la maggior parte dei giornalisti accecati dal “bigottismo contro la religione conservatrice, bigottismo contro la gente di campagna, bigottismo contro gli operai e i poveri bianchi”.

Gli stati “flyover”, cioè quelli del centro degli Stati Uniti e in particolare Virginia, Maryland, North Carolina e Pennsylvania “non sono un luogo, ma uno stato d’animo in alcune parti di Long Island e del Queens, alcuni quartieri di Miami o addirittura Chicago. E tutti questi cittadini-elettori, conclude il New York Times, hanno pensato che tutto questo controllo su ciò che faceva e aveva fatto in passato Trump quest’anno era sbagliato e che le innumerevoli bugie (più di quelle della Clinton) e le inchieste sulle sue trasgressioni aziendali e personali, li disturbava meno dei “mali nazionali ai quali Trump stava promettendo di risolvere”. E quindi era tutto rotto: il governo, il sistema economico e anche il sistema dell’informazione. “Sicuramente qualcosa si è rotto – conclude il New York Times – Può essere aggiustato, ma cerchiamo di farlo una volta per tutte”.

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