Piatto ricco per le banche che, complice la conclamata crisi del settore, si preparano ancora una volta a fare il “pieno” con la legge di Bilancio. Il dato più eclatante sono i 648 milioni che, stando alle bozze in circolazione, vengono stanziati a sostegno del fondo esuberi dei bancari e per agevolare le operazioni di fusione e di ristrutturazione del comparto. Meno eclatanti forse, ma non per questo meno importanti, le agevolazioni a favore dell’industria del risparmio gestito che è in massima parte controllata proprio dai grandi gruppi bancari e assicurativi: qui si va dagli sconti fiscali tout court alle imprese, come ad esempio l’abolizione dell’addizionale Ires, ai vantaggi fiscali per i clienti che si tradurranno inevitabilmente in nuove succulente occasioni di business per sgr, assicurazioni e intermediari finanziari in genere. Vi sono poi norme specifiche volte a diluire nel tempo l’impatto negativo sui bilanci bancari che inevitabilmente avrà il rifinanziamento del Fondo nazionale di Risoluzione, prosciugato dall’operazione di salvataggio delle quattro “good bank” la cui vendita è ancora là da venire, ma che sicuramente non consentirà il recupero delle somme spese. Ma procediamo con ordine.

Nelle bozze della legge di Bilancio è previsto uno stanziamento di 648 milioni di euro in cinque anni (fino al 2021) per integrare le risorse erogate dal fondo di solidarietà di categoria per favorire le uscite, integrazione che riguarderà al massimo 25mila lavoratori in un triennio (2017-2019). L’integrazione si è resa necessaria perché il fondo di solidarietà, fino ad ora completamente a carico del settore bancario, non è più in grado di sostenere da solo il peso della crisi e dei forti piani di ristrutturazione previsti di qui ai prossimi anni. I 648 milioni secondo le previsioni saranno così scaglionati: 174 milioni per il 2017, 224 per il 2018, 139 milioni per il 2019, 87 per il 2020 e infine 24 milioni per il 2021. I fondi sono attivabili fino al 31 dicembre 2019 per “le imprese o i gruppi di imprese coinvolti in processi di ristrutturazione rientranti nei settori destinatari dei fondi di solidarietà” e “interessati da provvedimenti legislativi relativi a processi di adeguamento o riforma per aumentare la stabilità e rafforzare la patrimonializzazione”.

A questo intervento, le cui finalità sociali sono evidenti alla luce delle decine di migliaia di esuberi che colpiranno il settore, se ne accompagna un altro, che riguarda invece una delle industrie finanziarie più fiorenti e in crescita degli ultimi anni, quella del risparmio gestito. L’articolo 13 della bozza della legge di Bilancio recita: “Esclusione delle società di gestione dei fondi comuni d’investimento dall’applicazione dell’addizionale Ires del 3,5 per cento”. In pratica, le società di gestione (sgr) vengono equiparate alle assicurazioni, la cui lobby era riuscita ad ottenere diversi vantaggi di tipo fiscale. Infatti, l’articolo 13 non fa altro che introdurre il termine “società di gestione dei fondi comuni d’investimento” nei tre commi che lo scorso anno si rivolgevano esclusivamente alle “imprese di assicurazione” e alle “società capogruppo di gruppi assicurativi”: così ora assicurazioni e sgr sono escluse dall’addizionale Ires del 3,5%, gli interessi passivi sostenuti diventano “deducibili nei limiti del 96% del loro ammontare” e concorrono anche alla “formazione del valore della produzione nella misura del 96% del loro ammontare”. Insomma, un bel regalo fiscale che continua a premiare le assicurazioni e che viene ora esteso a società che per la maggior parte sono controllate da gruppi bancari.

Non è il solo intervento del governo a favore dell’industria del risparmio gestito: guardando al pacchetto di misure volte ad agevolare gli investimenti a lungo termine (art. 19), balzano agli occhi le norme sui cosiddetti “piani di risparmio a lungo termine” sottoscritti da persone fisiche residenti in Italia, il cui reddito da capitale viene integralmente detassato. Cosa sono questi piani di risparmio a lungo termine? Sono gli investimenti fino a un massimo di 30mila euro l’anno (150mila euro complessivi) “in azioni o quote di imprese” residenti in Italia o nella Ue e/o in “quote o azioni di organismi di investimento collettivo del risparmio che investono prevalentemente negli strumenti finanziari indicati (cioè appunto  “in azioni o quote di imprese”). Per potersi configurare come “piano di risparmio a lungo termine”, la durata minima dell’investimento deve essere di cinque anni e deve essere regolata “attraverso l’apertura di un rapporto di custodia o amministrazione o gestione di portafogli o altro stabile rapporto con esercizio dell’opzione per l’applicazione del regime del risparmio amministrato”. Oppure può essere un “contratto di assicurazione sulla vita o di capitalizzazione”.

Insomma, un vantaggio fiscale al cliente-persona fisica che si tradurrà in un’enorme crescita del volume d’affari dell’industria del risparmio gestito. Questo non solo perché cresceranno le sottoscrizioni, ma anche e soprattutto perché si moltiplicheranno gli introiti commissionali e nei portafogli potrà finire sostanzialmente di tutto. Al comma 13 dell’articolo 19 si legge infatti che “in ciascun anno solare di durata del piano, per almeno due terzi dell’anno stesso, le somme o i valori destinati nel piano di risparmio a lungo termine devono essere investiti per almeno il 70 per cento del valore complessivo in strumenti finanziari, anche non negoziati nei mercati regolamentati o nei sistemi multilaterali di negoziazione, emessi o stipulati con imprese che svolgono attività diverse da quella immobiliare […], la predetta quota del 70 per cento deve essere investita per almeno il 30 per cento del valore complessivo in strumenti finanziari di imprese diverse da quelle inserite nell’indice Ftse Mib di Borsa Italiana o in indici equivalenti di altri mercati regolamentati”. In pratica viene data carta bianca per scaricare di tutto (o quasi) nei portafogli dei fondi (che sono in massima parte controllati dalle banche) e – sia direttamente sia indirettamente – in quelli della clientela. Unico limite, non si potrà investire più del 10% del valore complessivo del cosiddetto piano di risparmio di lungo periodo in “strumenti finanziari di uno stesso emittente o stipulati con la stessa controparte o con altra società appartenente al medesimo gruppo dell’emittente o della controparte”. Una ben misera foglia di fico a fronte dei giganteschi conflitti d’interesse che si generano con l’introduzione di questa norma.

Ma non è ancora tutto. La bozza della legge di Bilancio prevede anche che le contribuzioni addizionali richieste alle banche per coprire le perdite del Fondo nazionale di risoluzione (quello che ha rilevato la proprietà delle quattro “good bank”) possano essere differite su decisione della Banca d’Italia. Una norma che mette nero su bianco il fallimento dell’operazione di salvataggio di Popolare Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti cercando di diluire il più possibile nel tempo i costi a carico delle banche (costi che peraltro molti istituti hanno già iniziato indebitamente a riversare sulla clientela). Il Fondo di risoluzione dovrà presto essere ricapitalizzato perché i soldi spesi per il salvataggio non potranno essere recuperati con l’eventuale vendita delle quattro banche: un salasso di oltre 1,6 miliardi di euro. Così nella bozza della legge di Bilancio si dispone che la Banca d’Italia possa decidere che i contributi addizionali richiesti alle banche per coprire le perdite del Fondo di risoluzione vengano versati “entro un arco temporale stabilito dalla stessa Banca d’Italia e comunque non oltre i cinque anni successivi a quello di riferimento delle contribuzioni addizionali medesime”. Una norma peraltro retroattiva, visto che viene fatta valere anche per le contribuzioni addizionali eventualmente richieste per il 2016.

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