di Vitalba Azzolini *

La disciplina con la quale il governo intende cambiare verso alla trasparenza della pubblica amministrazione ha finalmente ricevuto l’approvazione in via definitiva. Il testo reso noto nel gennaio di quest’anno, oggetto di molte critiche da parte degli interessati e di rilievi di forma e di sostanza da parte del Consiglio di Stato, è stato successivamente modificato. La nuova normativa viene presentata come una vera “rivoluzione” che, analogamente a quanto avviene con il Freedom of Information Act (Foia) statunitense, riconosce al cittadino il diritto alla richiesta di atti inerenti alle P.A., a qualunque fine e senza necessità di motivazioni, e aggiunge alla preesistente disclosure di tipo “proattivo”, ossia realizzata mediante la pubblicazione obbligatoria dei dati e delle notizie indicati dalla legge (d.lgs. 33/2013) sui siti web di determinati enti, una trasparenza di tipo “reattivo”, cioè in risposta alle istanze di conoscenza avanzate dagli interessati. Il ministro Madia ha affermato che adesso tutti potranno esercitare il “diritto di sapere” e, pertanto, “diventare protagonisti della cosa pubblica”.

Occorre rammentare che già il citato decreto attribuiva dal 2013 a ogni soggetto un diritto all’informazione nei riguardi delle P.A. reticenti alla trasparenza, vale a dire che non avessero inserito nell’apposita sezione del proprio portale quanto specificamente richiesto dalla legge: l’accesso civico è uno strumento che consente ai cittadini di ottenere dall’amministrazione inadempiente la pubblicazione di dati, documenti ed elementi mancanti.

Ci si aspetterebbe che il governo autore della predetta “rivoluzione” sia ottemperante agli obblighi che la regolamentazione vigente dispone in tema di trasparenza e, più in generale, utilizzi quest’ultima come cifra stilistica del proprio modo di rapportarsi alla collettività: alla prova dei fatti, tuttavia, così non sembra. Il sito web della Presidenza del Consiglio dei Ministri non solo presenta incompletezze rispetto a quanto previsto normativamente; ma non permette neanche l’agevole segnalazione delle stesse da parte di chi intenda esercitare il “diritto alla conoscenza” di cui è già attualmente titolare. A quest’ultimo riguardo, interessante è l’esame dei documenti resi disponibili in rete da parte di un cittadino che ha tentato l’impresa di effettuare un accesso civico riguardante il predetto sito web istituzionale.

In particolare, si scopre che tale accesso può essere esercitato mediante un modulo online assolutamente insufficiente a contenere dettagliate segnalazioni di eventuali omissioni in materia di trasparenza (totale/parziale adempimento, incompleta/non aggiornata informazione, problemi sul formato del dato in riferimento ecc.). Infatti, il modulo consente un numero massimo di 140 caratteri: un tweet, in buona sostanza, in stile con la più recente comunicazione del governo. Se pure tale limitazione è stata concepita per dissuadere dalla formulazione di rilievi pretestuosi, appare evidente come essa finisca per nuocere a proficue azioni di collaborazione da parte dei singoli interessati: utilizzando il form del tutto inadeguato presente sul sito, si dovrebbero inviare ripetute, numerose ed elementari istanze di accesso civico, tante quante sono le singole informazioni di cui si chiede la pubblicazione. Ne conseguirebbe un’inevitabile confusione, nonché la dispersione nella tracciabilità tra richieste e riscontri sia per l’istante che per l’amministrazione adita.

Al cittadino solerte non resta che provare con la posta elettronica, puntualmente rifiutata dalla casella piena dell’email dell’Urp competente, e poi con l’invio di una Pec a un indirizzo mail, che tuttavia non è certo sia quello corretto. Al di là delle difficoltà accennate, chiunque può riscontrare che il sito web in discorso non rispetta i principi di “accessibilità, nonché di elevata usabilità e reperibilità, anche da parte delle persone disabili”, titolari di un diritto fondamentale a fruire delle informazioni e dei servizi erogati da una P.A. indipendentemente dal proprio handicap, come previsto dal Codice dell’Amministrazione digitale; la maggior parte dei documenti presenti sono in formato non aperto e non accessibile – diversamente da quanto previsto dal codice citato – in quanto riproduzione di immagine scansionata da documento cartaceo o elaborati con software proprietario; sono carenti le informazioni in tema di misurazione e valutazione delle performance e si rilevano incoerenze in materia di banche dati.

A quest’ultimo riguardo, giova aprire una parentesi: sembra che con il c.d. Foia italiano la divulgazione di informazioni da effettuare finora nella sezione “Amministrazione Trasparente” dell’ente dovrà essere sostituita dalla pubblicazione di link ipertestuali a banche dati, ferma comunque restando la possibilità per la singola P.A. interessata di continuare a rendere note le medesime informazioni sul proprio portale. Appare evidente la complicazione che, nel reperimento di elementi e notizie, potrà scaturire da tale ridondanza, considerata altresì la circostanza che non è chiaro come potrà essere garantita l’identità tra quanto contenuto nelle banche dati e quanto presente sul sito web dell’ente: in caso di discrepanza, graverà ancora una volta sul cittadino l’onere di districarsi nella burocrazia informativa conseguente.

In prosieguo, si potrà verificare l’esito dell’istanza di accesso civico cui si è fatto riferimento. Un dubbio resta: quale affidabilità può riconoscersi a chi abbia annunciato una “rivoluzione” normativa in tema di trasparenza, ma non assolve agli obblighi di trasparenza previsti dalla “rivoluzione” normativa precedente? Serve rimettersi ai posteri per la non troppo ardua sentenza?

* Dipendente Consob, esperta di diritto. Scrive anche per il Sole 24 ore ed altre testate nazionali. Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.

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