“Ne ho parlato tanto, ma oggi l’ho vissuto quasi sulla mia pelle. Ho ancora addosso l’angoscia e tuttavia non credo affatto, come si sente dire in queste ore, che dobbiamo rassegnarci a rinunciare alla nostra libertà, militarizzando strade e aeroporti”. A parlare è Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi che si occupa di politica internazionale e terrorismo, con particolare attenzione alla Libia e al Mediterraneo. Era a Bruxelles quando è circolata la notizia dell’attacco, atteso a un convegno sul radicalismo organizzato dall’Ispi e da due think-tank europei. “Venendo in centro incontravamo persone sconvolte, alcune arrivavano dalla metropolitana ed erano state partecipi dell’attacco, le lacrime, chiamavano a casa per dire che stavano bene. Non si riusciva a parlare, le linee erano occupate”.

Che idea si è fatto dell’attacco?
“Che certo può essere una risposta all’arresto di Salah, ma certamente era stato preparato da tempo. Un attacco simile richiede una preparazione che supera i tre giorni. Forse lo hanno semplicemente anticipato per evitare di essere “bruciati” da Salah o da chi è nel mirino degli inquirenti. Sempre che Salah fosse al corrente di ciò, perché mi pare che la rete di connivenze di cui godesse, capace di tenerlo nascosto per quattro mesi, sia molto ben organizzata e ampia. C’è una parte di comunità che è molto omertosa e partecipa di questa decisione, o anche solo intimorita, per cui chi sa non denuncia per paura di ritorsioni da parte di qualcuno della comunità stessa. Capiamo anche in quale tensione vive questa parte di comunità. Poi c’è una rete di “facilitatori”, di persone insospettabili che si adoperano. E’ qualcosa che noi, tutto sommato, conosciamo bene perché vicina all’omertà tipica delle zone mafiose”.

Lei sarebbe dovuto partire da quell’aeroporto proprio oggi. Immaginava potessero colpire lì?
“All’aeroporto, come si sa, i controlli sono nella fase post, l’attentato è stato fatto agli ingressi. Mi chiedo come si fa a militarizzare completamente un aeroporto, una città, una civiltà. Non penso che questo sia possibile e in ogni caso, anche se ci riuscissimo, saremmo comunque esposti altrove: nei mercati, per le strade, nei porti, nei palazzi. Non si può pensare di militarizzare una società. Bisogna fare prevenzione, è un problema che si trascinerà per tempo. Non lo risolviamo domattina, non militarmente ma mettendo a fuoco che la questione culturale è prioritaria su tutte le altre”.

Non è la prova che è venuto il momento di intervenire contro lo Stato Islamico che tutto può fare tutto?
“Possiamo anche dire che facciamo un intervento armato che smantella lo Stato Islamico, come è stato detto da Putin e da altri. Ma bisogna considerare che ci mettiamo i famosi “boots on the ground”, e chi è disposto a farlo realmente? Questo proprio non si sa. Ma anche questo non risolve il problema perché lo estinguiamo lì ma poi rispunta altrove, in altre parti del mondo. E che facciamo, interveniamo in tutto il mondo? Dalla Siria alla Libia, dalla Nigeria all’Iraq, allo Yemen?”.

Allora ci arrendiamo. Ci rassegniamo al fatto che si parta senza sapere se arriva…
“Certo, non si può neppure negoziare, perché non si si negozia sui nostri principi vitali. Bisogna tenere la barra dritta, sapere quali sono gli obiettivi di lungo termine. Non prendere decisioni controproducenti rispetto a quelli. Il primo è ricostruire stati in Medio Oriente che siano inclusivi e pluralisti il più possibile, che non significa necessariamente esportare la nostra democrazia con le baionette. Se guardiamo le mappe degli stati falliti e in via di fallimento e quelli che non controllano il loro territorio e la mappa delle insorgenze terroristiche si sovrappongono completamente. Non solo guerra ma, se viene fatta, che sia con la finalità di ricostruire quel tipo di stati, con la finalità inclusiva. Più ci sono parti escluse e più avremo possibilità di avere formazioni terroristiche. Il terrorismo di Isis, per dire, si alimenta dell’esclusione dei sunniti nel Medio Oriente, sostanzialmente Isis si è fatto paladino dell’islam sunnita. E noi gli stiamo permettendo di farlo: quale alternativa stiamo dando? Bisogna essere più sottili e intelligenti di loro. Poi bisogna combatterli con gli strumenti della civiltà di cui disponiamo se vogliamo che prevalga la nostra da noi”.

Dove stiamo sbagliando, che ci colpiscono e noi sembriamo disarmati?
“Questa è la nostra percezione. Loro pensano che siamo noi a colpirli e loro disarmati e inermi, altrimenti non sarebbe nato Al Qaeda prima e l’Isis dopo, loro si nutrono di questa percezione che abbiamo noi di essere colpiti, impotenti e innocenti e di morire nelle nostre metropolitane e nei nostri aeroporti. E’ lo stesso atteggiamento mentale che ha parte della comunità islamica araba nei nostri confronti. Ci pensano e ci narrano come gli aggressori. I terroristi si nutrono di questo e vogliono che noi percepiamo lo stesso identico atteggiamento. Il terrorismo è un messaggio politico, è comunicazione politica. Vogliono destabilizzarci. Per questo la nostra risposta deve essere un po’ più articolata e intelligente di quella di semplice pancia”.

Chiudere le frontiere, come si è detto, è una soluzione?
“No. Certo, i terroristi possono arrivare anche tramite i canali dell’immigrazione clandestina ma mi pare che i potenziali terroristi ce li abbiamo già in casa. Perché dobbiamo guardarci da quelli che arrivano da fuori quando il problema è già dentro? Salah abita e vive in questo ambiente da anni, non è arrivato l’altro giorno. Stiamo parlando di persone che si radicalizzano nei nostri ambienti. Quindi in realtà c’è qualcosa nel nostro ambiente che deve essere ripensato e rivisto e deve far sì che la nostra società sia percepita realmente come inclusiva di queste persone. E queste persone devono fare a loro volta uno sforzo di integrazione. Dobbiamo anche essere più fermi nel rispetto dei valori universali. Non sono incompatibili con l’Islam che non è lo Stato Islamico, che è un fazzoletto, una declinazione”.

Noi come siamo messi?
“Abbiamo fatto passi avanti relativamente alla nostra intelligence, alla nostra capacità di capire il fenomeno. Ovviamente bisogna fare molto di più e tutto questo non vuol dire che domattina purtroppo non possa esserci un attentato in Italia. Per compiere un attentato ormai non ci vuole molto. Penso tutto sommato che il caso belga sia piuttosto sfortunato per il numero di foreign fighters, cioé di persone pro capita che sono partite dal Belgio e sono andate a combattere e lì si sono radicalizzate. In Italia mi pare che siamo un po’ più fortunati o forse siamo ancora in tempo perché le nostre seconde e terze generazioni stanno nascendo ora. Ora ragazzini che provengono da famiglie di immigrati stanno iniziando  a crescere in Italia. E ora non bisogna sbagliare le mosse”.

Torniamo all’aeroporto, il punto più presidiato d’Europa. Dovremo rinunciare ancora alla nostra libertà personale?
“Beh hanno colpito fuori dalle aree di check-in che ancora non sono sottoposte ad alta intensità di controllo. Come le stazioni. Ma poi ci sono i bar, i teatri. Che facciamo? Non possiamo militarizzare un Paese e io non ho alcuna intenzione, come penso tutti noi, di privarci de nostro stile di vita e della nostra libertà. Quindi naturalmente parliamo di un fenomeno che è molto aggressivo in questo momento e che io ho vissuto stamattina sulla mia pelle quasi. Ma è ancora limitato, bisogna ragionare con la testa e non con la pancia. Non si può rinunciare a quello che siamo. Dobbiamo cercare di essere tutti più consapevoli e allertati e mettere chi fa sicurezza nelle condizioni di farlo, certo smettere di strumentalizzare questa situazione soffiando nella battaglia politica questi avvenimenti. Chi lo fa non va nella direzione dell’interesse nazionale che non è certo quello di alimentare il fuoco ma di spegnerlo spezzando i fronti dando insieme segnali di forza e di civiltà insieme”.

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