Il commento più significativo sull’accordo del rinegoziato fra Londra e Bruxelles lo ha rilasciato proprio il primo ministro britannico conservatore, David Cameron, dicendo che “il patto dà al Regno Unito uno status speciale”. Perché, si sa, ai sudditi di sua maestà non è mai piaciuto essere assimilati al resto degli europei, da ben prima di quando la minaccia era Napoleone Bonaparte e anche adesso che a irritare sono i ‘burocrati’ dell’Unione europea.

Cameron, così, ha messo il suo sigillo all’accordo raggiunto nella tarda serata di venerdì 19 febbraio, facendo intendere come, alla fine, contenga le migliori concessioni che Bruxelles potesse fare a Londra: la possibilità di negare il welfare agli immigrati comunitari nel caso di flussi ‘eccessivi’, innanzi tutto, ma anche l’esclusione del Regno Unito dai progetti di una Ue futura sempre più coesa e compatta e la tutela della Gran Bretagna, che non ha mai abbandonato la sua sterlina, come area al di fuori dell’eurozona ma comunque meritevole di protezione per la sua condizione di outsider monetaria. Come a dire, non adotteremo mai l’euro ma l’Europa non ci deve discriminare per questo.

Ci sono volute settimane di colloqui frenetici e sono stati necessari due giorni di dialoghi serrati per giungere a questo nuovo patto. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, e quello della Commissione, Jean-Claude Juncker, si sono prodigati in una sorta di balletto delle dichiarazioni, delle smentite e delle controsmentite. Alla fine, però, Cameron potrà ora presentarsi di fronte all’opinione pubblica con un risultato che gli dia maggiore garanzia di una bocciatura della Brexit alle urne del referendum fissato per il 23 giugno.

L’eventuale uscita del Regno Unito dall’Unione europea per Cameron sarebbe un duro colpo, così come sarebbe un dramma per le imprese britanniche che, riunite nella Cbi, la potente Confindustria del Regno Unito, hanno fatto sapere più volte di temere fortemente una rottura con il resto dell’Europa. Eppure era stato proprio lo stesso Cameron a promettere ai suoi elettori, e non solo, la consultazione referendaria, spaventato dal successo dell’Ukip di Nigel Farage, euroscettico se non proprio eurofobico, alle elezioni europee del maggio del 2014.

Indetto il referendum, ora i ministri del governo Tory avranno tuttavia libertà di coscienza e potranno fare campagna pro o contro la Brexit a loro puro piacimento. Del resto il partito conservatore proprio sulla questione è stato più volte sul rischio di spaccarsi. Secondo la Bbc, sono almeno sei i componenti dell’esecutivo – 5 ministri e un sottosegretario – che intendono votare a favore dell’uscita dall’Unione. Il personaggio di maggior spicco è Michael Gove, titolare della Giustizia. Ma pesano anche i nomi di Iain Duncan Smith (Lavoro), di John Whittingdale (Cultura) e di Chris Grayling, capofila storico degli euroscettici nel gabinetto.

Sulla linea di Cameron, oltre a figure scontate come il cancelliere dello Scacchiere e alter ego del premier, George Osborne, si conferma invece la titolare dell’Interno, Theresa May, in passato in fama di euroscettica dura. Sicuro il sì all’Ue anche dell’emergente ministro della Attività Produttive, Sajid Javid, mentre non si è espresso – ma è ritenuto sul carro del premier salvo sorprese – il collega degli Esteri, Philip Hammond, altro euroscettico storico.

Gove, da parte sua, ha detto che il suo no a Cameron, del quale è stato un fedelissimo ed è un amico di lunga data, è stato “doloroso”. “E’ una delle decisioni più difficili della mia vita”, ha aggiunto il ministro della Giustizia, affermando tuttavia – quasi a riecheggiare in modo uguale e contrario le parole del premier – d’essere convinto che l’accordo di Bruxelles non sia sufficiente e che la Gran Bretagna possa essere “più libera, più giusta e più prospera fuori dall’Ue”. Ora tutte le attese sono concentrate sul popolare sindaco conservatore di Londra, Boris Johnson, che non ha ancora sciolto la sua riserva sul referendum: potrebbe farlo domenica.

Ora resta da capire che cosa succederà sul fronte della politica interna, considerando che sull’accordo con Bruxelles stanno già arrivando gli strali degli euroscettici più convinti e oltranzisti, che ritengono il patto del rinegoziato assolutamente annacquato rispetto alle promesse iniziali. A partire soprattutto dal welfare, punto chiave di tutta la vicenda, che Cameron avrebbe voluto limitare completamente, sanità a parte, per i primi quattro anni di residenza nel Regno Unito. Un modo che secondo i conservatori avrebbe potuto scoraggiare anche i flussi migratori intraeuropei, in un Regno Unito dove nel 2015 il saldo netto è stato di oltre 300mila nuovi arrivati, contro i massimo 100mila che il premier aveva promesso in campagna elettorale.

“Voltare le spalle all’Unione europea non sarebbe però una strada percorribile”, aveva detto Cameron solo pochi giorni fa. Mostrando ancora una volta una delle contraddizioni più evidenti, ma per nulla nuove, del rapporto fra Londra e il resto del continente e le istituzioni di Bruxelles. Perché, sì, il Regno Unito puntava a quello ‘status speciale’ che ora il primo ministro sbandiera come ottenuto. E soprattutto il Paese non voleva finire invischiato in un’Ue che, pur nelle difficoltà del momento legate soprattutto alla difficile ripresa economica e alla crisi dei migranti, di Schengen e delle frontiere, ha da sempre l’obiettivo di unirsi sempre più, possibilmente un giorno anche dal punto di vista politico e identitario e non solo economico e monetario.

Ma per il Regno Unito, e appunto questo non è nulla di nuovo, l’Unione europea è ancora una volta un po’ uno scaffale di un supermercato dal quale prelevare solo quello che serve e che fa comodo ai suoi cittadini. Con un timore che serpeggia nei palazzi del potere di Bruxelles: che cosa succederà quando anche altri Paesi inizieranno a pretendere anch’essi con forza condizioni tutte speciali?

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