Cominciate a risparmiare otto euro perché il 25 febbraio esce in sala il più bell’esordio italiano alla regia visto da settembre ad oggi: Lo chiamavano Jeeg Robot. L’opera prima di Gabriele Mainetti è un lavoro di rara perfezione. E badate bene: non è solo un film, come dire, che vuole mostrarsi come fenomeno giovanilistico o ai soli ‘geek’ amanti dei supereroi. È molto di più: poesia pura per ogni età, pregiudiziale culturale e coordinata geografica. Lo chiamavano Jeeg Robot potevano girarlo tranquillamente tra le violente e disgraziate periferie di Detroit, Seattle, Manchester, Tokyo o Parigi. Potentissimo ed universale, quindi. In una Roma tendente all’apocalisse, squassata da continue esplosioni, vive Enzo Ceccotti – bentornato Claudio Santamaria – un mezzo furfantello, taciturno, “amico di nessuno”, che abita in un appartamentaccio dai muri scrostati, mangia yogurt sottocosto e guarda pornazzi in dvd. Fuggito a due sbirri dopo aver rubato un rolex d’oro rimane aggrappato ad una barcaccia nel melmoso Tevere. Lì finisce a contatto con una sostanza radioattiva che gli si appiccica addosso e gli s’infila litri e litri giù per la gola. Una volta ripulito e tornato in “attività” è testimone di uno scontro armato per lo spaccio di droga e, incredibilmente, rimane illeso dopo esser stato colpito da una pallottola nel petto ed essere finito giù dal nono piano in caduta libera. Enzo incanala subito l’inattesa forza sovraumana nella sua carriera di delinquente, scassando Bancomat e rapinando portavalori a mani nude; ma l’incontro con Alessia, una ragazza un po’ folle ossessionata dalla visione su un mini pc delle avventure del celebre cartone animato giapponese Jeeg Robot d’acciaio, gli farà capire parecchie cose sull’uso e l’abuso dei superpoteri.

C’è una dose massiccia di ultraviolenza, qualcosa di sporco e crudele ma mai divertito (come farebbe un Tarantino, per dire) nella malavita che ruota attorno all’affaire Jeeg Robot. La disputa tra la gang dello Zingaro (un incredibile Luca Marinelli) e i napoletani capitanati da Nunzia, in cui finisce in mezzo Enzo, è pura gangster story con tanto di zampilli scorsesiani di sangue arterioso e ossessioni d’onnipotenza depalmiane. Poi c’è l’invincibilità dell’eroe, che però si muove e parla come un antieroe: uno che non usa supercostumi ma semplici cappuccio e sciarpa nera alla black bloc.

Il riaggionarsi trent’anni dopo del file ‘colui che mena duro alla Bud Spencer’ comporta una sintesi tra l’impaccio di Clark Kent e il disincanto neorealistico alla Franco Citti. E poi c’è una delicatissima storia d’amore: il personaggio naif – Alessia (Ilenia Pastorelli) – che letteralmente buca con la sua ingenuità e isteria, con quel vestito rosa in mezzo ai contrasti scuri, l’incredulità spettatoriale (“il cuore mi fa bim bum bam”) di fronte al supereroe. Lo script asciutto di Nicola Guaglianone – che lavora insieme a Mainetti fin dal primo cortometraggio – e Roberto Marchionni “Menotti”, assicura con assoluta precisione la tessitura della trama, il dipanarsi degli eventi senza rischiare l’esibita falsificazione, l’essenzialità dialettica tra figure chiave e comprimari, la creazione della suspense, come fossimo di fronte ad una preziosa miscela tra Wes Anderson ed Age & Scarpelli. Come se non bastasse c’è perfino un sottotesto più politico (i murales alla Banksy con il supereroe dal viso coperto che saccheggia il Bancomat) che viene comunque lasciato sbollire in un più generale sentimento di borgata che ancora una volta rende tutto poco romaneggiante e molto periferia metropolitana universale.

Quando poi, tra un alleggerimento sonoro mai sbracato e molto ironico con brani italiani pop (Gianna Nannini, Loredana Berté, ecc..), si arriva in piena action tra supereroi, scatta il dovuto meccanismo di genere: l’eroe intrappolato come un salame è nella classica situazione di difficoltà, la sua bella è stata rapita e lui viene ricattato, e il nemico è pronto a subentrargli. Parentesi d’obbligo su Luca Marinelli. Un villain autenticamente sadico, infinito nell’atteggiarsi tra reuccio e carnefice, che potrebbe essere semplicemente traslato sul set di Suicide Squad senza far torto a nessuno, o diventare il nuovo Joker di Batman. L’ extra ordinario (un termosifone piegato con le mani come fosse burro) irrompe e viaggia a braccetto con l’ordinario (la stanza al Motel Casilino). Gli evidenti e ripetuti effetti visivi sono davvero “invisibili”, quasi un fardello espressivo che non vuole mai rubare la scena o squalificare il senso ultimo del film. Lo chiamavano Jeeg Robot va visto anche solo per la sequenza finale, che ellitticamente riprende l’imponente e per nulla cartolinesca carrellata aerea in entrata, con un tocco di onnipotenza stilistica tanto da gridare: aiuto, ma questo Mainetti da quanto tempo fa il regista?

Articolo Precedente

“Tu mi stronchi? E io m’incazzo”: quando la critica cinematografica fa arrabbiare chi la riceve. “È la sindrome di Tripadvisor”

next
Articolo Successivo

Cinema giapponese, sei capolavori restaurati di Ozu tra crowdfunding e homevideo

next