Pare che il termine “cult” l’abbiano inventato per questo film. Parliamo di The Blues Brothers, uscito nelle sale statunitensi il 20 giugno 1980, con una preview limitata nella città di Chicago quattro giorni prima, e che oggi compie 35 anni. E come sempre, quando si parla di pietre miliari della storia del cinema, c’è chi fin da subito non capì cosa aveva tra le mani. Ma andiamo con ordine. I Blues Brothers come coppia di cantanti e come band, nascono in tv sulle frequenze del Saturday Night Live il 17 gennaio 1976 quando John Belushi e Dan Aykroyd per la prima volta appaiono sulla scena vestiti da api e cantano King Bees. Passa un po’ di tempo, aprile 1978, e cappello, cravatta, giacca e Ray-Ban Wayfarer neri i due commedianti con tanto di band praticamente ufficiale (Steve Cropper, Lou Marini, Donald Duck Dunn, Matt Guitar Murphy, tra gli altri) cominciano a dimenarsi come folli sulle note del classico Soul Man. E’ lì che prende corpo l’idea dei Blue Brothers come band che recupera e riarrangia i grandi pezzi musicali del blues e del soul.

Seguono live e 33 giri che fanno la storia. Poi Aykroyd una mattina si sveglia e “vede la luce”: perché non farci un film? John Landis che bazzica l’entourage Belushi da qualche anno accetta l’input di Dan e in poco tempo la sceneggiatura si compie anche se la faticaccia e la scarsa voglia con cui la Universal produce il film passa alla storia. “Nel 1979 quando girammo, il film era davvero un oggetto improbabile per uno Studio. Per quanto l’idea fosse bizzarra, basta pensare che all’epoca la musica era quella degli Abba e dei Bee Gees”, spiega Landis nel magnifico volume/intervista che gli ha dedicato il festival di Torino nel 2004.

John Lee Hooker, Aretha Franklin, James Brown, Ray Charles, Cab Calloway diventano comprimari di lusso, se non addirittura protagonista della missione dei fratelli Blues, Jake e Elwood, che devono salvare l’orfanotrofio sotto sfratto in cui sono cresciuti. I grandi nomi del passato non erano più sulla cresta dell’onda da tempo e avevano dovuto subire l’onta del funky e della disco musica arrembante. La Universal, che produceva anche musica, non volle addirittura produrre la colonna sonora del film che infatti finì sotto contratto per la Atlantic. Miopia memorabile perché Everybody needs somebody to love, Sweet home Chicago, Shake a Tail Feather, Think e compagnia diventarono successo nuovamente planetario rilanciando diversi autori presenti nel film; oltre che essere di per sé la spina dorsale dell’opera che Landis ha sempre pensato come un musical.

I momenti memorabili per lo spettatore sono decine, ogni svolta narrativa, ogni sequenza: i nazisti dell’Illinois (“io odio i nazisti dell’Illinois”, impreca Jack/Belushi), il megaconcerto al Palace Hotel, l’inseguimento con decine e decine di auto distrutte… E poi c’è l’invincibilità dei Blues Brothers che come due cartoni animati, o come fossero Stanlio e Olio, non si scompongono mai e si mettono a cantare perfino in cella un Jailhouse Rock di Elvis che fa tremare di paura ancora oggi il defunto re del rock and roll. C’è poi John Candy, indimenticabile poliziotto che se la ride quanto e come i fratelli Blues; c’è Steven Spielberg che fa l’impiegato dell’ufficio delle tasse; le coreografie in strada sulle note del pezzo di Ray Charles, ecc…. E ancora una volta c’è la libertà di un cinema ancora bigger than life, fracassone e coinvolgente, c’è la voglia di stupire e farsi meravigliosamente male sul set come quando Landis racconta che spesso col tecnico del suono si nascondeva sotto i sedili dietro della Bluesmobile e riprendeva tutto in presa diretta tra corse e frenate.

The Blues Brothers fece nemmeno 5 milioni di dollari nel primo weekend poi in pochi mesi con 27 milioni di dollari di budget ne raccolse 115 d’incassi in tutto il mondo. Tra l’altro in Europa e in Giappone ebbe quasi più successo e ricavi che negli Stati Uniti. Del film ce n’è un’inguardabile sequel: The Blues Brothers – Il mito continua (2000) che finì pure fuori concorso al Festival di Cannes. Lasciamo a Landis, un grandissimo regista ampiamente sottovalutato e autore di almeno due capolavori (l’altro è Un lupo mannaro americano a Londra), l’ultima parola sul suo film che venne accorciato dalla Universal perché alla prima visione gli esercenti dissero che altrimenti sarebbe stato visto “solo dai neri, mai dai bianchi e dai ragazzini”: “Il film doveva avere un intervallo, tagliandolo si perse lo spirito paradossale dei Blues Brothers – la Gestalt dei Blues Brothers sta nella sua scala, che è fottutamente immensa”.

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