Seconda parte: non si accoglie con la carità ma con il lavoro

Qui la prima parte

Qualche giorno fa, nella solita schizofrenia tra xenofobi e xenofili, in risposta ad inviti alla chiusura totale dei Comuni proposta dalla destra leghista, il Presidente del Consiglio prometteva incentivi ai comuni disposti ad accogliere. Questo ‘fare la carità a chi fa la carità’, questa doppia carità pelosa, con cui il nostro disastrato governo fomenta all’accoglienza i comuni più disastrati nella promessa di qualche vantaggio economico, è veramente deprecabile. A chi accoglie andrebbe portata la possibilità di far lavorare gli accolti. Non si accoglie con la carità, ma con il lavoro.

Dato che, per quanto sia indispensabile limitare questo flusso, non ci potremo esimere nei prossimi anni dal dover accogliere molto, abbiamo bisogno urgente di riportare il lavoro qui, il lavoro che sempre di meno c’è per gli stessi italiani ed europei. Nel nuovo orizzonte sociale che queste migrazioni stanno inevitabilmente configurando, abbiamo la necessità e l’obbligo di rifare dell’Europa un luogo di produzione (avremo una classe operaia prevalentemente africana e mediorientale? Ci sarà un nuovo capitolo della lotta di classe? ben venga in questa forma, soprattutto se l’alternativa è il crollo della coesione sociale, sotto il peso di quest’improvvisa e imponente moltitudine arrivata dal Sud del mondo). Si tratta di trovare nuove regole per riaprire le fabbriche e anche per tornare ai campi… È utopistico pensare a una nuova agricoltura che coinvolga i migranti nelle aree rurali desertificate dallo spopolamento e dalle politiche agroalimentari dell’Ue?

Nel sistema mondo dell’economia neoliberista è utopistico pensare di poter far tornare le linee di produzione nei nostri vecchi capannoni dismessi? Forse, e di certo non sarà facile; ma, viceversa, potremo mantenere per sempre questa crescente marea umana nel dispendioso limbo della carità variamente opportunistica dell’industria della solidarietà? No. Quando questa caricatura di civiltà terminerà ci ritroveremo con milioni di marginali che avranno un’alta probabilità di finire con il delinquere, più per necessità adattiva che per scelta: se postulare un nesso deterministico ‘straniero-criminale’ è una pericolosa bestialità razzista, non capire il rapporto probabilistico ‘estraneità-marginalità-devianza’ è una sciocchezza buonista altrettanto pericolosa. Per quanto la liturgia immigrazionista abbia voluto isolare il caso del picconatore Kabobo nel tranquillizzante ambito di una follia puramente interiore e del tutto singolare, fra poco ci accorgeremo che, se non riusciremo a trovare il modo di offrire a queste persone la possibilità di un lavoro dignitoso, non appena il rubinetto della carità si rivelerà insufficiente, arriverà una grandinata di follia sociale composta da risentimento e violenza. Il rischio esiziale che troppo spesso rimuoviamo è quello che sul territorio europeo si generino spore sempre più resistenti e pervasive di guerriglia interetnica tra immigrati e residenti, dove ci accorgeremo troppo tardi di aver importato qui gli orrori da cui alcuni di loro sono fuggiti. 

Allarmismo? Qui va inteso che il rassicurazionismo può essere più deleterio dell’allarmismo (per non parlare del fatto che, ricambiando, dovremmo esigere da chi accogliamo rispetto culturale e lealtà civica, e lo scrivo soprattutto pensando alla leggerezza con cui, sopratutto in ambito progressista, escludiamo qualsiasi nesso tra migrazioni e fondamentalismi).

È per questo che dobbiamo agire in fretta e con rigore, senza cedere alle lusinghe di politiche rozzamente xenofobe, ma comprendendo che anche la reazione – ad esse opposta e complementare – della banale xenofilia va superata. E andrebbe superata passando a sinistra, rinunciando alla scellerata tentazione di trasformare l’Europa, in un immenso campo profughi, banlieueizzandola, a solo vantaggio degli enti e degli apparati che, in nome di un solidarismo tanto vaneggiante ideologicamente quanto contaminato a tutti i livelli da interessi economici, gestiscono questa globalizzazione della miseria e della disperazione.

Poi, diciamolo chiaramente: in realtà finora non abbiamo accolto pressoché nessuno. Consentire l’accesso a dei corpi per relegarli alla servitù (com’è avvenuto negli scorsi decenni, finché anche quel mercato del lavoro precario extracomunitario si è saturato) o alla marginalità (e oggi l’industria della solidarietà in ambito migratorio non produce altro che marginalità silente) non è accoglienza, per il semplice fatto che non vi è un riconoscimento concreto dell’Altro. Siamo solo all’inizio, e per questo dobbiamo imparare ad accogliere entro i limiti della sostenibilità che ci possiamo permettere rispetto ai nostri valori e alle nostre risorse, questo vuol dire che dobbiamo imparare sia ad accogliere che a respingere; ad accogliere non con la carità interessata dell’industria della solidarietà, ma con la ricostruzione di un sistema di lavoro.

Potrà non piacere, ma, a voler richiamare certe genealogie, si può e si deve essere progressisti ponendosi in modo radicalmente critico-problematico nei confronti dell’immigrazionismo. Ciò a partire dalla consapevolezza che – nel momento in cui degenera autopoieticamente in un sistema che trae profitto dalle pratiche di aiuto umanitario – l’industria della solidarietà è lo zombie del marxismo, o almeno l’ennesimo e forse l’ultimo atto del massacro perpetrato dal capitalismo neoliberista nei confronti dello Stato sociale. Proprio per questo l’industria della solidarietà andrebbe smantellata da sinistra, sostituendo l’offerta di carità con quella di lavoro.

Se non saremo in grado di garantire a chi sbarca un’occupazione produttiva, nel giro di pochi anni la pseudo-accoglienza alla moltitudine d’immigrati che – sotto il nome poetico di ‘migranti’ o quello drammatico di ‘rifugiati’ – approdano in Europa si trasformerà in una calamità sociale. Per questo è necessario guardare oltre la logica (e gl’interessi) dell’industria della solidarietà.

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