E’ passato un anno dal 10 giugno 2014, quando la seconda città per importanza dell’Iraq, Mosul, è caduta nelle mani dell’Isis. Il 17 maggio del 2015 la città di Ramadi, capoluogo della provincia di Anbar a un centinaio di chilometri da Baghdad è stata conquistata dall’Isis, così come – per ultima –  Palmira. Gli interrogativi su questa avanzata sono più che giustificati. E’ mai possibile che i combattenti del califfato non si possano fermare? E cosa pensano gli analisti arabi di quello che sta avvenendo?

Vi è un diffuso convincimento che nella coalizione anti-Isis non vi sia una volontà politica vera e propria di contrastare questa avanzata. La liberazione di Mosul – annunciata da una ventina di Paesi – sembra essere stata rimandata a data da destinarsi. Come spiegare infatti che dopo 10 mesi di bombardamenti aerei la coalizione non sia riuscita a riconquistare la città? Alcuni analisti hanno parlato, a questo proposito, della cattiva preparazione dell’esercito iracheno che, nella sua ritirata, ha lasciato nelle mani dei combattenti del califfato molte armi. Aggiungerei che questo esercito manca di lealtà verso la causa nonché di spirito di combattimento.

In realtà, secondo Ekram Badr Al-Din, professore all’Università del Cairo, la situazione così com’è permette alle potenze occidentali di approfittare della riduzione del prezzo del petrolio che, a causa della vendita in nero da parte del califfato, è notevolmente sceso. Il giornalista Sameh Rached, invece, sostiene che per battere le milizie dell’Isis, bisogna organizzare un’offensiva terrestre che sia preceduta da un blocco aereo e marittimo dello spazio siriano e armare le tribù sunnite irachene. Le sole forze che combattono effettivamente sul terreno sono i curdi e le milizie sciite sostenute dall’Iran. Gli obiettivi di queste due forze, apparentemente comuni, sono però abbastanza divergenti. I primi combattono in quei territori che in futuro potrebbero aggregarsi alla formazione di uno Stato curdo; i secondi hanno mostrato che la loro lotta di liberazione anti-Isis ha riproposto comportamenti anti sunniti – come ad esempio è avvenuto a Tikrit, dopo la liberazione quando i miliziani sciiti iniziarono a saccheggiare negozi e ad assumere comportamenti violenti verso la popolazione.

In questo quadro diventa essenziale e prioritario giungere ad una tregua nella lotta tra sciiti e sunniti. Bisogna riproporre questo obiettivo, cercare una soluzione pacifica che, a mio avviso, deve passare attraverso la denuncia, da parte del Primo ministro iracheno Haider Al-Abadi, della politica settaria anti-sunnita praticata dal suo predecessore Nouri Al-Maliki.

Nel dibattito che si è aperto (si veda per tutto Al Ahram Hebdo) vi sono analisti che danno una lettura della situazione un po’ diversa. E’ il caso di Mohamad Gomaa, del “Centro Studi Strategici e Politici” del Cairo, il quale ritiene che oggi l’Isis è più debole che mai. La presa di Ramadi e la ritirata delle truppe è stata pianificata, secondo questo analista, dai combattenti vicini all’Iran, per dimostrare che l’esercito iracheno da solo non è capace di affrontare il califfato: in questo modo si afferma l’idea che le milizie pro-Iran debbono lottare a pieno titolo per sostenere le truppe irachene.

In questo gioco geopolitico si inserisce la sua riflessione che considera la posizione degli Stati Uniti è caratterizzata da una strategia che mira a mantenere l’equilibrio in questo conflitto e non a trovare una soluzione rapida per annientare l’Isis. Questo atteggiamento è rivolto ad indebolire nel lungo periodo tutti i Paesi implicati nel conflitto, mentre intanto migliaia di uomini, donne e bambini muoiono.

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