Anziché impazzire sui 600 articoli del Codice degli appalti – comprensibili solo a chi li ha scritti – il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio farebbe prima a sfogliare l’album di famiglia del ministero che Matteo Renzi gli ha mollato, il più opaco di tutti, roba da fare invidia ai servizi segreti. Con un’occhiata alle foto più toccanti familiarizzerebbe subito con la facce che lo circondano e con gli scandali che è chiamato a disboscare. C’è per esempio un’istantanea datata 28 luglio 2011. A Castiglion de’ Pepoli (Bo) entra in funzione la più grande fresa del mondo. Deve scavare la galleria Sparvo, gioiello della cosiddetta Variante di Valico, la nuova autostrada tra Bologna e Firenze, destinata a sostituire l’esausto tratto appenninico dell’Autostrada del Sole. Alla commovente cerimonia partecipano i rappresentanti di Autostrade per l’Italia, il committente, la Toto Costruzioni, fornitrice della fresa, il capo della vigilanza Anas sulle concessionarie autostradali, Mauro Coletta, e l’ex ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi, presente non per nostalgia ma perché la sua Rocksoil ha progettato il tunnel. Il ministero delle Infrastrutture che Delrio ha trovato funziona così: il ministro firma la Legge Obiettivo per dare speditezza alle grandi opere, alcune delle quali da lui progettate; per dare ulteriore impulso ai cantieri nomina nel 2005 proprio Coletta, il vigilante su Autostrade per l’Italia, commissario per la Variante di Valico, con il mandato di aiutare la vigilata a tagliare corto con la burocrazia (anche se stesso?) e le opposizioni dei sindaci. La concessionaria, per fare prima, prende la gigantesca fresa da Toto, non solo costruttore ma anche suo socio come concessionario della A24 e A25 (Roma-L’Aquila-Pescara). Parlare di conflitti di interessi in un quadro del genere farebbe sorridere. Questo è un colossale impasto di interessi, in cui una mano lava l’altra e tutte insieme presentano il conto al casello. Infatti la storia è finita come doveva. La galleria Sparvo, mal progettata, ha cominciato a rimanere schiacciata da quella frana che i sindaci della zona avevano segnalato inascoltati. Come abbiamo imparato dal Vajont, un bravo ingegnere non si perde dietro alle chiacchiere degli zotici del posto. Fatto sta che Toto è stato chiamato a metterci una pezza con rinforzi non previsti e ne è nato un contenzioso con Autostrade. Il costruttore chiedeva 500 milioni e alla fine, sei mesi fa, ne ha avuti un centinaio, dopo laboriosa mediazione del commissario Coletta. Il quale ha dovuto mettere d’accordo due concessionari su cui vigila perché non truffino gli automobilisti al casello. L’ad di Autostrade Giovanni Castellucci un mese fa ha suggellato la vicenda ammettendo che effettivamente la Variante di Valico è stata progettata male, e che “il tracciato aveva un livello di rischio geologico, misurato successivamente, superiore a quello ipotizzato dai progettisti”. Successivamente?

Una vigilanza che garantisce i profitti delle concessionarie
In questa Italia in cui prima si progetta, poi si costruisce e poi si misura il rischio geologico, la Variante di Valico costerà 7 miliardi anziché i 3,5 previsti, ma Castellucci ha assicurato che Autostrade pagherà la differenza di tasca sua, senza chiedere un solo euro al contribuente o all’automobilista. E qui sorge spontanea la domanda che dovrebbe porsi Delrio: se 3,5 miliardi sono l’equivalente di 5-6 anni di profitti e dividendi di Autostrade per l’Italia, come mai di fronte a un simile annuncio il titolo Atlantia (la holding dei Benetton che contiene le autostrade) non è crollato? Semplice: non ci ha creduto nessuno. Un simile rovescio avrebbe mandato in rovina Autostrade se al ministero ci fosse una vigilanza effettiva. Invece c’è l’architetto Coletta, che da circa 30 anni si occupa di autostrade senza aver mai notato nulla di strano. Basta guardare i bilanci. Nel 2014 Autostrade per l’Italia ha incassato pedaggi per 3,7 miliardi di euro, ha fatto investimenti per obbligo di concessione (cioè pagati dai pedaggi) per 493 milioni, e ha conseguito un utile netto di 662 milioni, il 18 per cento del fatturato. Dei 662 milioni di utile netto, circa 340 sono dovuti all’effetto cumulato degli aumenti dei pedaggi ottenuti negli ultimi quattro anni. Il gruppo Gavio nel 2014 ha incassato pedaggi per 903 milioni e ha fatto un utile netto di 163 milioni, pari al 18 per cento del fatturato, esattamente come la società dei Benetton. Come se l’unico effetto della vigilanza dello Stato sulle concessionarie fosse la par condicio tra i partecipanti alla mangiatoia.

Ecco un esempio. Nello scorso dicembre la senatrice di Sel Loredana De Petris ha presentato un’interrogazione all’allora ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, su una cosa molto tecnica che però vale centinaia di milioni di soldi pubblici. La Satap, società del gruppo Gavio che gestisce la Torino- Piacenza, ha messo in bilancio 342 milioni di rivalutazione monetaria della sua autostrada. Se l’autostrada è già ammortizzata, nel bilancio vale zero; ma i beni ammortizzati, se ancora funzionano, possono essere rivalutati, perché effettivamente rappresentano un valore di cui la società dispone. Nel caso delle concessionarie autostradali, però, attraverso la rivalutazione si materializza dal nulla un capitale investito di cui si pretende la remunerazione. De Petris ha chiesto a Lupi se per caso il gruppo Gavio ha fatto questo, e se per caso l’architetto Coletta si è accorto di qualcosa. Nessuno ha risposto. Eppure la cosa non è irrilevante. Il gruppo Gavio, attraverso un lobbista potentissimo come l’amico di famiglia Fabrizio Palenzona, presidente dell’Aiscat (associazione delle concessionarie) e molto legato anche ai Benetton, sta cercando di ottenere un allungamento delle concessioni, pericolosamente vicine alla scadenza, con il trucchetto di promettere in cambio nuovi investimenti.

Il governo Renzi ha aderito alla brillante idea, scrivendo sotto dettatura l’articolo 5 del decreto Sblocca Italia, talmente sgangherato che è già stato abbattuto dal fuoco concentrico di Commissione Europea, Autorità Antitrust e Autorità dei Trasporti, nonché dal presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. Il gruppo Gavio si era già sbilanciato nella gratitudine, partecipando in forze alla celebre cena di finanziamento del Pd del 5 novembre scorso a Milano. Ma Palenzona ha già chiarito che le concessioni si possono allungare anche alla vecchia maniera, senza ricorrere allo Sblocca Italia: trattando direttamente con Coletta attraverso lo scambio di documenti secretati di cui conosceremo solo l’esito finale, l’aumento dei pedaggi. La difesa di questo sistema opaco è corale.

Uno dei primi atti del governo Monti è stato scrivere nel decreto Cresci Italia, a futura memoria per non correre rischi, che all’istituenda Autorità dei Trasporti sarebbe spettata la vigilanza solo sulle concessioni autostradali “nuove”, cioè su nessuna. Allora, gennaio 2012, la vigilanza spettava all’Ivca, apposito ispettorato interno all’Anas, guidato da Coletta dal 2006. Poi lo stesso governo dei tecnici si rese conto dell’oscenità di affidare all’Anas la vigilanza sulle autostrade quando la società guidata dall’ineffabile Pietro Ciucci era essa stessa una concessionaria. Per esempio nel 2007 Anas ha costituito al 50 per cento con la regione Lombardia la Cal (Concessioni Autostrade Lombarde) e ne ha affidato la presidenza a Coletta, che così vigilava su se stesso. Fu così deciso che la vigilanza doveva passare direttamente al ministero delle Infrastrutture. Detto fatto, per legge si è preso l’Ivca di Coletta e lo si è passato armi e bagagli sotto il ministero, con il nuovo nome Svca (“Struttura” al posto di “Ispettorato”). I 120 dipendenti, scontenti per il passaggio ope legis da una spa come Anas alla pubblica amministrazione, sono in contenzioso da due anni, e l’operatività della Svca è per questo e altri motivi rallentata. Che Coletta possa avere nostalgia dell’Anas è comprensibile. L’anno scorso Gianfrancesco Turano ha rivelato su l’Espresso che il capo della vigilanza autostradale era, insieme a Ciucci, uno dei numerosi dirigenti Anas ammessi al banchetto dei collaudi del Mose, con un compenso stimato tra i 240 e i 400 mila euro.

Quella telefonata tra Lupi e Incalza per sistemare i pedaggi
Come funzioni la vigilanza sulle pretese dei concessionari autostradali ce lo rivela una telefonata tra l’allora ministro Lupi e il vero ministro, l’Ercole Incalza recentemente arrestato, intercettata il 28 dicembre 2013, alla vigilia del maxi-aumento dei pedaggi autostradali scattato il 1 gennaio 2014.

Incalza: A proposito di concessionari autostradali ieri sera tardi… il Prosperi c’ha mandato un verbale della riunione… che non è condivisibile per niente.
Lupi: Allora non firmiamo.
Incalza: No, infatti io e Paolo già ci siamo detti ieri sera tardi, ci siamo sentiti stamattina … abbiamo avvisato già Giacomo Aiello, io più tardi chiamo Prosperi e glielo dico che noi non possiamo accettare … cioè ha fatto un verbale…
Lupi: Quindi se io non accetto quindi non firmo… cioè… Poco dopo tornano sull’argomento.
Incalza: Che facciamo con Prosperi? Niente… Duro no…
Lupi: Con Prosperi la posizione mia non cambia… io non violento nessuno … avevamo detto nel modo con cui avevamo detto … sennò io firmo gli aumenti dovuti e basta…
Incalza: Perchè poi … hai visto con le analisi che abbiamo fatto, l’aumento più forte è quello della Valle D’Aosta poi gli altri sono 11% … 12% che è sempre alto però … non è così tragico come… non è 25 … 30% insomma…
Lupi: Va be’ sono somme forti eh!…

Sì, sono somme forti. E doveva averlo fatto notare Antimo Prosperi, capo del dipartimento del Tesoro, che ha guardato le carte visto che il decreto sui pedaggi autostradali deve firmarlo anche il ministro dell’Economia. Alla fine l’allora ministro Fabrizio Saccomanni firmò, evidentemente fidandosi, visto che i dati sono tenuti accuratamente segreti, che è poi il mestiere vero di Coletta. Il quale un anno fa, al presidente dell’Autorità dei Trasporti Andrea Camanzi che chiedeva l’accesso alla sua banca dati per poter iniziare il suo lavoro, rispose in gelido burocratese: “Si rappresenta l’impossibilità di trasmettere i relativi contenuti, tenuto anche conto dei protocolli di riservatezza che caratterizzano l’accesso al sistema.

Twitter @giorgiomeletti
Da Il Fatto Quotidiano di mercoledì 22 aprile

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