This changes everything: capitalism vs the climate”, nella traduzione italiana: “Una rivoluzione ci salverà. Perché il capitalismo non è sostenibile”. Sembra uno slogan della piazza globale che da Seattle a Genova, dalla Conferenza Ministeriale della Wto del 1999 al G8 del 2001, è stata il luogo di un movimento di massa senza confini. Come fenomeno carsico, la eco dell’impianto culturale e politico della critica new global al modello capitalistico riprende forma nel titolo a caratteri cubitali sulla copertina dell’ultimo libro di Naomi Klein che la scorsa settimana ha chiuso a Roma il tour italiano di presentazione.

Non mancano dati e analisi che sembrerebbero dar ragione a quella stagione di mobilitazione sociale. A partire dall’ultimo rapporto dell’Intergovernmental Panel on Climate Change, il Gruppo intergovernativo di esperti delle Nazioni Unite, su cui dovrebbero fondarsi gli accordi mondiali sul clima, quali la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici e il Protocollo di Kyōto che la attua.

Dall’era pre-industriale, la concentrazione di anidride carbonica è aumentata del 40%; cause primarie, le emissioni legate all’uso dei combustibili fossili e quelle dovute al cambio di uso del suolo, deforestazione e cementificazione. Più del 75% delle dieci gigatonnellate di incremento annuo delle emissioni di gas serra tra il 2000 e il 2010 è stato dovuto alla fornitura di energia (47%) e all’industria (30%). A questa inesorabile degradazione dell’ambiente si accompagna l’aumento delle diseguaglianze economiche e sociali. Così, i dati pubblicati da Oxfam nel gennaio 2015 affermano che, nel 2014, “l’1% più ricco della popolazione mondiale possedeva il 48% della ricchezza globale, lasciando appena il 52% da spartire tra il restante 99% di individui sul pianeta”. Crisi ambientale e crisi sociale avanzano parallelamente. I movimenti di massa di fine anni ’90 mettevano bene in luce entrambe i fenomeni, mentre la situazione emergente dai dati appena citati sembrerebbe testimoniare l’incapacità della politica di dare risposte concrete.

La presentazione del libro di Naomi Klein è stata anche un’occasione per ritornare alle ragioni dei movimenti sociali per la giustizia ambientale, calpestate e vessate dalla politica. Di pochi mesi fa le dichiarazioni di Renzi sui “comitatini” di Sicilia e Basilicata che non possono fermare gli interessi legati ai nuovi progetti di estrazione di gas e petrolio su cui punta lo Sblocca Italia. Fa riflettere, ad esempio, che il lanciato del libro di Naomi Klein negli Stati Uniti, a settembre 2014, sia avvenuto a poca distanza dal summit Onu di New York sui cambiamenti climatici, convocato 5 anni dopo il fallimento del vertice di Copenaghen, quando nessuna intesa fu trovata sul trattato che dovrebbe sostituire il protocollo di Kyoto del 1997. A New York, i capi di Stato e di governo, erano stati chiamati ad assumere impegni concreti sulla riduzione delle emissioni di gas climalteranti. In quell’occasione, in piazza, a New York, 400mila persone manifestarono nella People’s climate march. Secondo l’autrice, i veri leader del clima erano in quella piazza e non alla conferenza Onu.

A conferma di ciò, al summit di New York, Renzi affermò che “Quella dei cambiamenti climatici è la sfida del nostro tempo, non c’è tempo da perdere, lo dice la scienza, la politica deve fare la sua parte”. A novembre dello stesso anno il governo Renzi ha approvato con doppio voto di fiducia il decreto Sblocca Italia: nuove autorizzazioni di ricerca ed estrazione petrolifera, grandi opere, gestione dei rifiuti fondata sulla creazione di una rete nazionale degli inceneritori. Insomma, cemento e fonti energetiche fossili, i primi fattori responsabili di cambiamenti climatici secondo l’Ipcc.

Il 4 febbraio mattina, prima della presentazione del libro, Naomi Klein ha incontrato alcuni parlamentari di Sel, M5S, gruppo misto e corrente di sinistra del Pd. L’incontro è stato convocato dal gruppo parlamentare di Sel. Tra le dichiarazioni, quella di Nichi Vendola che sottolinea l’esigenza di “tornare al più presto a ragionare sul fatto che c’è un modello di crescita e sviluppo che estrae la ricchezza dalla devastazione dei fattori ambientali” e ancora in Italia “si dice di cambiare verso e poi le trivelle tornano a bucare i fondali del mar Adriatico”. Mentre Stefano Fassina, in linea con quanto espresso dalla Klein, ha esplicitato orientamenti contrari al Ttip, il trattato di libero scambio Usa-Ue affatto privo di impatti ambientali attraverso la spinta all’impiego in Europa del fracking, la dannosissima tecnica di estrazione di gas e petrolio tramite fatturazione idraulica delle rocce, e l’introduzione degli Ogm. Su questi temi e, in generale, sulle tematiche ambientali, il gruppo parlamentare di Sel ha abbozzato l’ipotesi di una maggiore apertura alle istanze dei territori e dei movimenti, pur prospettata in termini molto generici. Tema centrale dell’incontro, proprio a partire dalla presenza della Klein, quello del clima, in vista della ventunesima sessione della Conferenza della Parti (Cop 21) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici per stabilire un accordo internazionale sul clima, l’incontro che si terrà a Parigi tra novembre e dicembre 2015. Sul punto, nel resoconto dell’incontro, sul sito di Human Factor, assemblea programmatica di Sel, si legge: “Mettere in campo un paradigma che si fondi sull’idea che giustizia ambientale e giustizia sociale non solo non siano in contraddizione ma, al contrario, totalmente integrate e dipendenti l’una con l’altra. Anche per questo, Sel e il gruppo parlamentare lanceranno un osservatorio sulla giustizia climatica cercando di incrociare le istanze dei movimenti e delle associazioni sul territorio in modo da portare la loro voce nell’assemblea di Montecitorio”.

Quanto dichiarato dai parlamentari va posto nel quadro delle responsabilità politiche degli stessi partiti di appartenenza. A partire dal sostegno del Pd al Ttip criticato da Fassina, passando per l’unanime consenso sui provvedimenti dello Sblocca Italia, per finire con le responsabilità degli amministratori di Sel nelle politiche inceneritoriste della Puglia o in quelle su cui indaga la magistratura rispetto al disastro ambientale dell’Ilva. Alla luce di ciò, la praticabilità di un’opzione politica di nuova apertura della sinistra ai movimenti per la giustizia ambientale e allontanamento dal coacervo di interessi economici sottesi alla devastazione dell’ambiente è tutta da verificare.

Per adesso la politica ambientale italiana è ben rappresentata dalla passerella istituzionale in occasione della presentazione ufficiale di Expo 2015. Celebrando la cementificazione di un’area di un milione di metri quadrati, oggetto di appalti truccati, interessi famelici e corruzione, Renzi ha potuto prevedere “un anno felix, straordinariamente fertile” per l’Italia. Dal canto suo, il ministro delle politiche agricole, Maurizio Martina, non ha avvertito disagio, in quello stesso luogo di affari legati alla speculazione edilizia, a proporre l’inserimento del diritto al cibo in Costituzione. Mentre Pisapia ha dichiarato che “Milano nel 2015 sarà una città accogliente ed ospite dei dibattiti su temi di interesse mondiale”, senza chiedersi se per far ciò era proprio necessario un investimento di 3,2 miliardi di euro per la costruzione di ciò che può essere paragonato ad un gigantesco palazzo dei congressi a dieci chilometri dal centro e i cui principali effetti positivi dal punto di vista economico sono soprattutto legati alle opere infrastrutturali connesse. La BreBeMi, ad esempio, l’autostrada praticamente inutile perché parallela alla già esistente A4.

Se ritorniamo ai dati dell’Ipcc secondo cui l’aumento del 40% della concentrazione di anidride carbonica vede, tra le cause primarie, le emissioni legate all’uso dei combustibili fossili e quelle dovute al cambio di uso del suolo, verrebbe da pensare che i veri interessi tutelati dall’Expo siano quelli di chi si è aggiudicato gli appalti. Perché sfamare il pianeta senza terra e condizioni climatiche adeguate è qualcosa che nemmeno la tecnologia ha ancora reso possibile. A questo punto, più a sinistra di tutti, Papa Francesco che ai suoi uditori dichiara: “No, a un’economia dell’esclusione e della iniquità. Questa economia uccide (…) rinunciare all’autonomia assoluta dei mercati e della speculazione finanziaria e agire anzitutto sulle cause strutturali della iniquità”.

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