“Ah… senti Pè, qua ho i consensi da tutte le parti, mi vorrei candidare… ah Peppe…”. A parlare è Antonio Macrì, l’ex presidente del Consiglio comunale di Siderno arrestato stamattina dalla squadra mobile di Reggio Calabria che ha girato le manette ai polsi ad altre 28 persone sospettate di essere affiliati alla ‘ndrangheta. Peppe, invece, è Commisso, il boss di una delle più potenti famiglie mafiose calabresi. E’ a lui che i politici della Locride si rivolgono per avere il permesso a candidarsi alle regionali.

L’intercettazione è nell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal gip su richiesta del procuratore Federico Cafiero De Raho, dell’aggiunto Nicola Gratteri e del sostituto Antonio De Bernardo che hanno coordinato l’operazione “La morsa sugli appalti pubblici”. I Commisso e gli Aquino avevano imposto il pizzo del 3% a tutte le ditte che lavoravano sul loro territorio: dai lavori per il funzionamento della diga del Lordo alla messa in sicurezza della scuola media statale “Corrado Alvaro” di Siderno. ‘Ndrangheta e politica, a queste latitudini, sono una cosa sola. Lo dimostra l’intercettazione in cui il politico locale Antonio Macrì, del Pdl, chiedeva l’autorizzazione al boss per essere inserito nella lista che, nel 2010, sosteneva l’allora candidato alla presidenza della Regione Giuseppe Scopelliti: “Ti puoi candidare… Sì ti puoi presentare…”.

La registrazione è l’emblema di come i politici locali sono funzionali alla ‘ndrangheta: “Mi aiuti, si? .. cittu, cittu… (zitto zitto, inteso come: di nascosto)… Io per il Pdl faccio… la lista del presidente… Scopelliti…È il presidente… il sindaco di Reggio, fa tre liste, in una delle tre liste ci sono io… ancora non so in quale, ma sempre… quasi, quasi, mi candiderei…”. Lapidaria la risposta di Giuseppe Commisso, detto il “Mastro”: “Non ti preoccupare che quello che possiamo fare lo facciamo…”.

Nell’ordinanza di custodia cautelare c’è un intero capitolo dedicato ai rapporti “fra ‘ndrangheta e politica – scrive il gip – esistendo una immediata collaborazione fra uomini della criminalità organizzata sidernese e uomini eletti dai cittadini nei posti di pubblica responsabilità, al fine di trarre reciproci illeciti vantaggi”. Il giudice per le indagini preliminari spiega come è il politico che cerca il mafioso e non viceversa: “Uno spaccato poderoso per comprendere come l’organizzazione ‘ndranghetista intenda esercitare la propria influenza, che spesso si traduce in vero e proprio controllo sulla vita politica locale e sui suoi esponenti. Anche i rapporti e le modalità di compenetrazione tra i due mondi si avvicinano, invertendosi il meccanismo classico di ‘aggancio’, essendo dato acquisito ad oggi che parta dai politici (candidati o aspiranti tali), l’iniziativa per creare il contatto, con pressanti richieste di appoggi elettorali e scambi di promesse che condizionano fortemente l’attività pubblica a favore della ‘ndrangheta”.

“Da sempre – aggiunge il gip – lo snodo dei rapporti mafia-politica è una questione cruciale per la comprensione delle ragioni per cui (e delle modalità con le quali) tutte le organizzazioni di tipo mafioso, e tra esse specificatamente la ‘ndrangheta, riescano ad affermare i propri interessi sui territori oggetto della loro presenza ed accumulino nel tempo il proprio potere di condizionamento e di controllo tendenziale su ogni attività ed interesse”.

Sul punto si è soffermato anche il procuratore De Raho durante la conferenza stampa tenuta in questura. Il magistrato assicura l’impegno della Procura e delle forze dell’ordine in occasione delle prossima tornata elettorale. In Calabria si vota sia per le Regionali che al Comune di Reggio sciolto nel 2012 per infiltrazioni mafiose: “In molte indagini si sono evidenziati tentativi di condizionamento del voto da parte dei clan, per questo il mio ufficio, insieme alle forze dell’ordine, è già pronto alle prossime elezioni che ci saranno a Reggio. Presteremo la massima attenzione per garantire la massima libertà”.

Con l’inchiesta “La morsa sugli appalti pubblici”, gli uomini del capo della Mobile Gennaro Semeraro sono riusciti a dimostrare come le cosche imponevano il pizzo non solo alle grandi imprese ma anche ai venditori ambulanti. La tangente era più bassa se le ditte che dovevano pagare il 3% erano “amiche”. Un concetto che ha spiegato anche il procuratore aggiunto: “La regola della ‘ndrangheta è che tutti gli ‘uomini’ devono pagare”.

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