Molti osservatori (soprattutto stranieri) si scervellano da anni cercando di individuare il male assoluto che rende questo Paese mediocre: sarà la corruzione? Sarà la mafia? Sarà l’incompetenza? Nossignore.

Come spesso accade, il dato reale si nasconde nelle sfumature, e quindi nella stessa domanda originaria. Il problema di questo Paese è la stessa mediocrità. Non mafia, non corruzione, non incompetenza. Semmai tutte queste cose insieme, arricchite (o meglio impoverite) da un paragrafo storico dello stivale: i mediocri. Di mediocrità si muore, disse un grande scrittore alcuni lustri fa. Il problema di questo Paese è che di mediocrità non si muore più: si vive. Si sopravvive. Prendete Matteo Renzi: cita a casaccio Telemaco, parla di “selfie dell’Europa, ferma il capo delegazione del Movimento Cinque Stelle al Parlamento Europeo, gridando: “tu sei quello dell’autostop”, giura di prendere per la gola i corrotti: nel frattempo, però, lancia endorsement per l’incolumità del nuovo Senato. Alcuni elettori del centro sinistra si sono fidati, recentemente, di tale Pippo Civati, il classico talento ancorato al concetto di conveniente: ebbene, costui ha alzato le barricate solo dopo che uno dei suoi (Corradino Mineo) venisse epurato in pieno stile bulgaro. Roba da correnti democristiane, potenziate dai social network.

Molti collegano l’ex sindaco di Firenze a Berlusconi e al berlusconismo: niente di più falso. Renzi non è figlio di Berlusconi: è semmai coetaneo di un Paese millantatore e sostenitore della cosiddetta “via più breve”. La scorciatoia, “chi conosci”, perché non ne parli con? In una parola: l’omicidio della meritocrazia. Questo Paese parla di cervelli in fuga mentre semi analfabeti millantano di essere professori universitari con un assegno di ricerca in tasca, ottenuto per via politica, senza aver mai conseguito uno straccio di dottorato. Questo Paese accredita avvocati che si sono specializzati in Spagna. Questo Paese riconosce il titolo di giornalisti a dipendenti di conventicole private (o ancora peggio pubbliche) che cercano di pubblicizzare sui giornaletti concerti e teatrini. Questo Paese ha smarrito la sua identità, quasi fosse inconsapevole di averla avuta. Ha dimenticato di essere il Paese del talento, dello stile, del gusto. Era il Paese dell’Olivetti Lettera 22, di Giò Ponti, di Pier Paolo Pasolini, di Leonardo Sciascia, di Renato Guttuso, di Federico Fellini, di Enrico Berlinguer e Giovanni Spadolini, della Vespa, della lampada di Fontana, di Indro Montanelli.

Il problema di questo Paese è che le argomentazioni, gli esempi, la musica, la cultura, i film e le opere di genio, ovvero tutto ciò che rende credibile i punti di vista, è ormai scomparso: sostituito da bugie affascinanti. È un Paese di slogan, di hastag, di repliche, dei video virali, della caciara, delle foto sfocate su Facebook. E chi crede di potere puntare sul talento, anche se magari lo ha davvero, è spacciato. È un Paese che invoglia alla fuga. Oppure all’inseguimento del carro del più forte. Che quasi mai fa rima col più bravo.

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