E alla fine, di nuovo, è dovuta arrivare la magistratura. L’Expo e le tangenti. L’Expo e la corruzione. Milano e l’inguaribile malattia che la sfregia da decenni. Non ci voleva molto a vederlo. Expo 2015 è diventata sempre di più un totem, una religione. Vietato parlare di legalità, di regole da rispettare. O meglio: benvenuti gli annunci trionfali di legalità, i patti mano nella mano, come moschettieri, per un evento “mafia free”. Solo che mentre le figure-immagine delle istituzioni rassicuravano sul rispetto delle leggi, e su protocolli sempre più stringenti, i molti poteri economici che si sono affollati intorno al Grande Evento sono andati tessendo una tela contraria, talvolta con tanto di benedizioni politiche dall’alto. E hanno suonato la loro musica a reti unificate: se i controlli continuano, se ci preoccupiamo troppo delle imprese di ‘ndrangheta o di Cosa nostra, al maggio 2015 non ci arriveremo mai.

L’Expo rimarrà una grande incompiuta, con tutti i danni di immagine che ne deriveranno per l’Italia e per Milano. Legalità contro efficienza. Come tante volte è accaduto in questo paese, come sempre più sistematicamente è accaduto a botte di commissari straordinari, emergenze e urgenze internazionali. Si è arrivati perfino a sostenere, con argomenti giuridici surreali, che per l’allestimento dei padiglioni stranieri non debbano valere i protocolli, mica si può imporre la nostra legge agli stranieri. Ci si è perfino avventurati a teorizzare che questi padiglioni, in quanto rappresentanza di specifici Stati esteri, debbano essere equiparati alle ambasciate. Un gigantesco extra legem. Quel che è accaduto in un clima di accondiscendenza intellettuale ha avuto evidenza pubblica. Tanto che chi aveva il compito di offrire suggerimenti proprio in tema di rischio mafioso era stato facile profeta: dopo avere perso due anni solo per nominare l’amministratore delegato di Expo, ci sarebbe stata la corsa finale per trasformare in nemico della patria chi avesse sollevato qualunque problema di legalità.

Così è potuto succedere che tornassero nel grande motore economico della capitale lombarda i Greganti e i Frigerio. Perché, un decennio dopo l’altro, c’è sempre una ragione per vivere le leggi dello Stato come impacci allo sviluppo. Stavolta è stato il mito dell’immagine della città. A nessuno (o quasi) viene in mente che c’è un tema dell’Expo – come nutrire il pianeta – che dovrebbe qualificarlo e mobilitare sin da ora scienziati, ricercatori, università, associazioni, amministrazioni, imprese del made in Italy e non solo. Nessuno (o quasi) pensa che l’immagine dell’Expo non sarà data tanto dalla quantità dei padiglioni (anche quelli, si intende) ma sarà data soprattutto del livello di proposte, ricerche, riflessioni, dalla biologia alla filosofia, capaci di porre al mondo in modo nuovo l’argomento che dovrebbe stare al centro dell’appuntamento . Per ora dettano legge sbancamenti, costruzioni, grandi opere e fatturati. Ed è in questa rete di affari che cercano vantaggi i profittatori di ogni risma. Le imprese calabresi o i professionisti e i manager che promettono qualunque appalto in cambio di carriere, secondo la formula testualmente intercettata dai magistrati. Ancora le tangenti, dunque.

Stavolta però è diverso. Non si chiedono soldi, che hanno l’inconveniente di essere tracciabili. Si chiedono vantaggi “di rete”, perché le carriere possono garantirle solo reti di amministratori, politici e manager spregiudicati impegnati in un gioco di squadra. Un pagamento lo può fare una persona sola. La carriera la può garantire “un sistema”. Appunto il sistema messo plasticamente a nudo dall’inchiesta brianzola che ha portato alla condanna dell’ex assessore Massimo Ponzoni, potente esponente del mondo ciellino ma anche definito da un magistrato, per iscritto, “capitale sociale” della ‘ndrangheta.

La reputazione di Milano e gli investimenti internazionali. Ecco, se c’è qualcuno che sta rovinando la prima e pregiudicando i secondi è proprio la corruzione. Che sfregia il volto della città, lo sporca, lo consegna come inaffidabile alla comunità internazionale, la quale notoriamente preferisce andare là dove c’è un diritto certo e impersonale, non un diritto preda delle clientele. Meglio allora un Expo con un po’ di cemento in meno, ma con la faccia pulita e un dibattito scientifico e politico di avanguardia, che un Expo sfarzoso, con la faccia rossa di vergogna e un progetto culturale raffazzonato; che spiega al mondo che in Italia, quando si ha di fronte la ‘ndrangheta, invece di selezionare i manager con rigorosi criteri di moralità, si mettono nei posti di vertice quelli che gli appalti li danno in cambio di carriere.

La ‘ndrangheta, quando fa le sue selezioni interne, è più esigente. Ed è questo che fa la differenza.

Il Fatto Quotidiano, 11 Maggio 2014

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