La prima versione dell’accordo sulla legge elettorale tra Renzi e Berlusconi non piaceva. Non piaceva ai partiti piccoli. E di conseguenza non piaceva al presidente del Consiglio Enrico Letta che aveva paura di essere indebolito. E fece sentire la sua voce anche il Quirinale che aveva sottolineato i rischi della riproposizione di alcuni meccanismi già censurati dalla Corte Costituzionale, “troppo maggioritari e distorsivi della rappresentanza”. In sostanza il modello spagnolo – praticamente bipartitico – non poteva andare. “Così siamo arrivati alla legge attuale che ha dei difetti, ma è comunque migliore del sistema che ci ha consegnato la Corte costituzionale”. Una ricostruzione degli ultimi mesi che ha fatto durante un convegno promosso all’istituto Luigi Sturzo di Roma il politologo Roberto D’Alimonte, docente alla Luiss di Roma e all’università di Firenze, editorialista del Sole 24 Ore e consulente “tecnico” di Matteo Renzi in fase di composizione delle prime versioni dell’Italicum. D’Alimonte, però, negli ultimi giorni, ha più volte espresso riserve sul prodotto finale: prima in un’intervista al Corriere della Sera, poi anche a margine di un convegno a Firenze. “Lo dico da studioso, però. Perché da politico capisco che c’è una trattativa e quindi si ottiene qualcosa da una parte e si deve cedere dall’altra”. Alla fine anziché uno spagnolo è venuto fuori quello che qualcuno chiama “Pastrocchium”. Per esempio sulla ripartizione dei collegi. In Spagna i collegi sono più piccoli e la ripartizione avviene a livello territoriale, in modo che ci sia quella che voi tecnici chiamate uno “sbarramento implicito” che avrebbe favorito una coesione delle forze politiche e la tutela delle rappresentanze territoriali, senza bisogno di Salva Lega, Salva Forza Sud e via dicendo.

Professor D’Alimonte, in questi giorni sembra di aver capito che ha preso un po’ le distanze dalla legge elettorale che sembrava essere stata ideata anche da lei. Lei si è definito al massimo “zio” e non “padre” della legge elettorale.
Ma voglio chiarire. Ho detto quella cosa non per disconoscimento della legge ora in discussione. Ma come riconoscimento dei veri ideatori e facitori della legge elettorale che sono Renzi e Berlusconi perché le scelte decisive sono state le loro. Poi hanno collaborato in una partecipazione diretta il sottoscritto, Verdini, Maria Elena Boschi, ma ha fatto sentire la sua voce anche il presidente della Repubblica. In questo senso mi sono definito lo “zio”. Io penso che questa sia una buona legge elettorale, migliore di quella attuale.

Però lei ha sollevato dei dubbi.
Sì, da studioso vedo alcuni problemi, non da politico. Per esempio una soglia per il premio di maggioranza troppo bassa. Ma anche un sistema troppo complicato delle soglie di sbarramento a maggior ragione dopo l’approvazione dell’emendamento Parisi di ieri (è stato definito “Salva Forza Sud”, ndr): sarebbe meglio ridurla a un’unica soglia. Secondo me, da studioso, sarebbe preferibile assegnare 340 seggi soprattutto in caso di vittoria al ballottaggio. Io però, sotto il profilo politico, capisco che il testo dev’essere anche il frutto di una trattativa. Sono stato soddisfatto, per esempio, che sia passata la proposta del doppio turno, che inizialmente Berlusconi non voleva. Quindi nella trattativa politica se si ottiene qualcosa, bisogna cedere dall’altro lato. Sulle soglie per esempio terrei che riportasse una cosa.

Quale?
Ho molto insistito, durante gli incontri che ci sono stati, perché i voti dei partiti che non raggiungono il 2% non vengano conteggiati ai fini dell’ottenimento del premio di maggioranza. Mi sarebbe andato bene anche l’1% ma non c’è stato niente da fare. E’ una cosa che penso io, che pensa Renzi, ma che, appunto, durante le trattative con Forza Italia non è passata: su questo punto l’intransigenza di Verdini è stata assoluta. Il punto fondamentale, comunque, è che questa per me è una legge migliore di quella che abbiamo, cioè quella uscita dalla sentenza della Corte Costituzionale. Certo, ha alcuni difetti che sarebbe preferibile correggere.

Lei ha detto che sulla legge elettorale ha avuto un’influenza indiretta anche il presidente della Repubblica. In che senso?
Credo di poter dire con cognizione di causa che il Quirinale auspicasse che la legge fosse rispettosa dei principi della sentenza della Consulta. Ma è sempre stata un’influenza molto discreta.

In particolare su cosa si è sviluppata “l’influenza indiretta” del Colle? 
Per esempio sulla soglia per far scattare il premio di maggioranza che inizialmente era più basso e soprattutto l’entità del premio stesso.

Alla fine quindi è venuto fuori un sistema meno spagnolo e più italiano. 
No, diciamo che dello spagnolo non c’è più niente. Si è preferito un modello di ripartizione nazionale anche perché si sono registrate delle resistenze. 

Da parte di chi?
Resistenze di Alfano e degli altri partiti piccoli. Ma anche dello stesso governo Letta perché questa irritazione poteva avere effetto anche sulla stabilità dell’esecutivo. Queste forze temevano di essere troppo penalizzate, con un sistema troppo bipartitico. Quindi si è preferito optare per una distribuzione di seggi a livello nazionale, altrimenti che fine avrebbero fatto Nuovo Centrodestra, Sel? La Corte Costituzionale aveva sottolineato la tutela della rappresentanza democratica.

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