Paolo Virzì, reduce dalla direzione del 31esimo Torino Film Festival, del quale ha lasciato le redini alla sua vice Emanuela Martini, sta per tornare in sala con Il Capitale umano e questa volta nella consueta veste di regista. A due anni da Tutti i santi giorni ispirato al romanzo “La generazione” dell’italianissimo Simone Lenzi, ha optato per una strada completamente diversa, partendo addirittura da un thriller americano.

Con l’aiuto dei soliti compagni di scrittura Francesco Bruni e Francesco Piccolo, si è imbarcato nella scommessa, appoggiata da Indiana Production che ha opzionato i diritti, di trasporre cinematograficamente il romanzo di Stephen Amidon. Lo scrittore statunitense, che Virzì ha voluto come giurato al TFF, ha aiutato il regista fornendo ulteriori spunti e materiale per la creazione dei personaggi, in un’opera che va ben oltre il semplice thriller. E così, la storia pensata in un ricco sobborgo del Connecticut ha preso forma sul grande schermo in Brianza, a pochi passi dalla Milano della Borsa e dell’economia, non così distante da Wall Street, né per somiglianza, né per i disastri finanziari di cui tutti stiamo accusando le ripercussioni in questo periodo.

Un punto di svolta nella carriera del cineasta toscano, un esercizio di stile nel quale si vede il tentativo, in parte riuscito, di andare oltre le dinamiche del cinema italiano contemporaneo, alla ricerca di suggestioni a metà tra la suspence americana e il dramma francese. Il film trova il modo in cui analizzare un mondo poco raccontato come quello dell’alta borghesia del Nord Italia e non attraverso riflessioni moralistiche e giudizi di merito, ma servendosi di un episodio che fa emergere in maniera naturale le contraddizioni del nostro tempo. E se Virzì ci ha abituati a osservare la società italiana con un occhio speciale, mettendo in luce con ironia vizi e virtù del nostro Paese, in questo caso il linguaggio è diverso ma il risultato rimane il medesimo: la riflessione sull’Italia e sugli italiani oggi in bilico, sull’orlo di una crisi politica e finanziaria.

Il libro di Amidon con tutti i suoi personaggi era l’occasione perfetta per entrare a far parte del mondo di queste persone, indagando su cosa realmente c’è dietro a esistenze spesso stereotipate e il tutto grazie a un cast di fuoriclasse. “Il Bernaschi”, ricco imprenditore senza scrupoli al quale Fabrizio Gifuni ha prestato il volto, perdendo per una volta l’aurea da eterno bravo ragazzo, così come Fabrizio Bentivoglio, che ha dovuto forzare sé stesso per entrare in un personaggio, quello del protagonista, che definire spiacevole è un eufemismo e che racchiude in sé l’immagine di quei nuovi ricchi che han fatto proprio un modello destinato al fallimento.

Ma come sempre, dietro a ogni grande uomo, ritroviamo una grande donna, in questo caso grandi attrici, che mettono in scena due personaggi agli antipodi, molto diversi fra loro. Valeria Bruni Tedeschi, al quale è dedicato un intero capitolo del film, nei panni della ricca aristocratica, ruolo per il quale non si poteva scegliere interprete più congeniale e una splendida Valeria Golino nella parte di una psicologa di ben più umili origini, entrambe bravissime a dare credibilità “coniugale” per così dire, a due partner cinematografici non facili da gestire, prevaricanti, spesso indifferenti, ai quali sono tutte e due subordinate.

Emergono così i diversi temi che il regista ha voluto toccare, dalla ricchezza malata frutto della speculazione, al ruolo della cultura sempre più marginale, fino ai conflitti generazionali tra figli succubi dei tempi e genitori privi del senso di responsabilità, il tutto amalgamato in un lungometraggio che rimane ben lontano dal voler fare la morale a qualcuno. 

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