E’ finita come tutti sapevano da giorni, e forse da sempre, che sarebbe finita: l’Ucraina e l’Armenia non firmano l’accordo di associazione con l’Ue. Su Kiev e Erevan, i niet di Mosca pesano più delle lusinghe, neppur troppo insistite, di Bruxelles. Invece, la Georgia, dimezzata nella propria sovranità dalla guerra del 2008, e la Moldavia firmano.

Ma il pesce grosso del Vertice a Vilnius tra l’Ue e i suoi vicini dell’Europa orientale era l’Ucraina, gigante economicamente fragile per i suoi bisogni energetici e democraticamente incerto, che dopo lo smembramento dell’Urss nel 1991 oscilla come un pendolo tra l’Ue e la Russia. Così, quello che, nelle parole di un alto diplomatico ucraino a Roma, doveva essere il giorno più importante per l’Ucraina dall’Indipendenza, resta una tacca in più nella teoria dei giorni della soggezione a Mosca. E il presidente della Commissione di Bruxelles Manuel Barroso sceglie l’occasione sbagliata per annunciare la fine in Europa “della sovranità limitata”.

Certo, le porte non sono chiuse: l’accordo si può ancora firmare, magari nei prossimi mesi, o chi sa quando, ma solo dopo essersi seduti al tavolo in tre, Ue, Ucraina e Russia, a valutare pro e contro. E il presidente ucraino Yanukovic, più amico di Putin che di Barroso, pone condizioni: “Vogliamo firmare, ma con un pacchetto d’aiuti”.

Che il Vertice di Vilnius non sarebbe stato un successo, lo si era capito senza ombra di dubbio una settimana fa. E la visita in Italia del presidente russo Putin aveva solo portato conferme in tal senso: la Russia è di nuovo il grande orso della politica internazionale e cerca di tenersi stretto il barattolo di miele di quei brandelli d’Impero sovietico che ancora le restano attaccati, se non altro perché dipendono dalle sue forniture di gas e petrolio.

Eppure l’Ue per blandire Ucraina aveva calcolato un po’ generosamente in punti di Pil i vantaggi dell’accordo. Non è bastato. Il balletto di richieste e rifiuti sulla sorte della Tymoshenko, che sconta in carcere una condanna dai contorni politici, è diventato una foglia di fico ‘double face’, la difesa dei diritti dell’uomo contro la difesa della sovranità.

I Grandi dell’Ue erano giunti già rassegnati: la Merkel, che ci tiene, e Hollande e Cameron, cui in fondo non importa molto. Il premier italiano Enrico Letta sarebbe quello più preoccupato, se non ci fossero le beghe interne a turbarlo molto di più: adesso, c’è il rischio che il triangolo irregolare delle relazioni Bruxelles–Kiev–Mosca complichi la presidenza italiana del Consiglio dei Ministri dell’Ue, dal 1 luglio 2014, se la Grecia non riuscirà, ammesso che ci provi, a mettere insieme prima i cocci di Vilnius.

Per il momento, il presidente del Consiglio europeo Van Rompuy dà appuntamento a gennaio, quando ci sarà l’incontro Ue-Russia: anche per l’Unione la vita e dura senza il gas della Gazprom, anche se “l’Ue continuerà a dire che l’influenza della Russia contrasta col diritto internazionale”.

Letta è circospetto. Parla di un Vertice in chiaroscuro e snocciola considerazioni ovvie e corrette: l’Ucraina “deve avere la possibilità di scegliere”; l’Ue “non vuole minimamente forzare la mano”, ma neppure la Russia deve farlo; la contrapposizione tra Bruxelles e Mosca “non aiuta nessuno”; bisogna evitare “l’errore storico” di tenere fuori dall’Ue una fetta d’Europa; la battuta d’arresto “è figlia dei sospetti” della Russia. Ma i Baltici, che Mosca e pure Kiev le conoscono bene e non le amano, dicono che le pressioni di Mosca sono una scusa: Kiev segue l’istinto e fiuta un affare più grande.

In Piazza, in Ucraina, la gente manifesta: non per protestare, ma per sostenere il presidente. Il mix di nazionalismo e opportunismo paga sempre.

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