Nel sederci a tavola nel Frakfurter Hof, commentai che – con l’eccezione delle rime di Goethe – a Francoforte, dall’arredamento dei ristoranti alla politica monetaria, prevalevano tendenze austere e solide, prevedibili come il sapore di un würstel. Bernanke sorridendo chiosò che il commercio di anime era una delle poche materie non influenzata dalle banche centrali. L’euro era già valuta ma non ancora banconota. Lui, uno degli accademici più influenti sulle questioni monetarie, era stato invitato alla Bce per discutere sulla rotta da tenere, dopo aver varcato le Colonne d’Ercole dell’unione monetaria. Un paio di anni dopo Bush lo nominò prima nel Board della Federal Reserve e poi nel 2006 al vertice, un outsider, nella Washington al cui mercato delle anime non suona mai la campana.

Destino volle che alla guida della Fed, durante la più virulenta crisi dalla Grande Depressione, ci fosse uno che aveva studiato minuziosamente proprio le politiche post 1929. Dopo il collasso della Lehman Bros. non esitò a tamponare il disastro inondando di liquidità il sistema finanziario americano e mondiale. In quell’emergenza epocale non si ricorse alla fantasia. Bernanke applicò la terapia che quasi tutti, da Friedman in poi, avevano prescritto: evitare che il panico prosciugasse il credito, devastando le banche e con esse l’economia reale. Ciò non significa che la terapia non abbia proditto effetti collaterali, in primis condonare l’incompetenza (o peggio) che allignava a Wall Street, ma alternative concrete non erano disponibili. Sulla reazione di Bernanke alla fase acuta della crisi lo spettro di giudizi è composito, ma in definitiva il fronte del rifiuto non è esteso né granitico.

Invece sulla politica monetaria condotta negli anni successivi la schiera degli oppositori si rafforza. Bernanke ha guidato la Fed con determinazione, ricorrendo a strumenti creativi, aggressivi e di portata mai vista per sollevare tre successive ondate di liquidità nei mercati (i quantitative easing, QE). Nello sforzo di contrastare la potenza del gorgo che risucchiava l’economia USA, il bilancio della Fed esplose da meno di un trilione di dollari nel 2008 a 3.6 trilioni di dollari oggi, inglobando un guazzabuglio di debito pubblico (oltre metà del portafoglio) e titoli di varia tossicità, soprattutto cartolarizzazioni di mutui. Visto che la ripresa rimane asfittica, molti asseriscono che l’efficacia è dubbia e le conseguenze ancora da scontare. Probabilmente se ne discuterà per decenni.

Di sicuro Bernanke lascerà da smaltire al suo successore una sbornia da 4 trilioni di dollari. Il giorno che i tassi inevitabilmente risaliranno, il valore delle obbligazioni scivolerà. La Fed presenta uno stato patrimoniale dove le passività sono i dollari emessi dal nulla per comprare i titoli iscritti tra le attività. Finora il gioco di specchi contabile ha retto. Ma i valori di passività e attività devono combaciare, quindi quando i tassi di interesse saliranno, sui dollari sorti dal nulla avanzerà un’ombra sinistra. Non a caso, da maggio, appena la Fed annuncia vagamente di normalizzare la politica monetaria, i mercati da Shanghai a New York, perdono quota trascinando il cambio del dollaro.

Chi sarebbe in grado di disinnescare il meccanismo senza farlo esplodere? Il favorito è Larry Summers (i bookmakers lo dànno 4 a 6), mentre la vice di Bernanke, Janet Yellen è la contendente più accreditata (data quasi alla pari). Il primo dopo essere stato un enfant prodige ad Harvard, ha ricoperto posizioni chiave con Presidenti democratici (fino a divenire Segretario al Tesoro con Clinton) incluso Obama per il quale ha gestito il salvataggio delle case automobilistiche (assicurando ad Obama la vittoria elettorale nel Mid-West). La seconda ha diviso la carriera tra università di prestigio la Presidenza dei Consiglieri Economici e varie esperienze nella Fed le cui dinamiche interne conosce a menadito. La Yellen è considerata più sensibile alla disoccupazione e all’economa reale, mentre a Summers viene attribuito un atteggiamento critico sulla prosecuzione del Qe.

Ma sulla successione a Bernanke si stagliano aspetti meno edificanti. Tra i vertici del governo e delle istituzioni finanziarie si intrecciano da decenni relazioni incestuose e conflitti di interesse plateali. Da Greenspan in poi anche la Fed è stata prona ai desiderata di Wall Street. La finanza tossica si nutriva della politica monetaria troppo accomodante e della supervisione da biscazzieri, che hanno ginfiato una una serie di bolle (a partire dalle dotcom). La figura che ha rappresentato il pinnacolo di questo intreccio è Robert Rubin, Ceo di Goldman Sachs, poi potentissimo Segretario al Tesoro con Clinton, per finire al vertice di Citibank. Altre figure prominenti sono Hank Paulson, Segretario al Tesoro con Bush, e Tim Geithner che copre quel posto con Obama. Anche Bernanke (che quando studiava ad Harvard viveva con l’attuale capo di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein), è legato quell’ambiente.

Per molti i trilioni di dollari in pancia alla Fed, oltre agli scarsi progressi sulla regolamentazione finanziaria promessa e mai effettivamente implementata, sono due macroscopici indizi che compongono la Prova. Anche scremando leggende e pettegolezzi che impazzano a Washington, fatto sta che Summers è un pupillo di Rubin, di cui fu vice al Tesoro prima di sostituirlo al vertice, e Obama con Summers (e il suo mondo) mantiene rapporti stretti. La Yellen invece ha incontrato Obama da Presidente solo una volta, è estranea a quel coacervo di intrecci e pertanto immune da forti influenze e soggezioni al “Club”, come viene chiamato il gruppo di personaggi circondati da un’aura faustiana. In fin dei conti, lo scranno della Fed risulterà una fondamentale “cartina al tornaconto” per valutare l’amministrazione Obama.

Da Il Fatto Quotidiano del 28 agosto 2013

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