Ore 18,25. 11 aprile 2013. “Pronto, parlo con Francesca D’Amico? Sono la dottoressa Erika Preisig, le comunico che suo padre è venuto varie volte da me per richiedere il suicidio assistito. Oggi è morto, non poteva più vivere, stava troppo male, voleva andare”. Un pugno di parole che la tramortiscono. “Forse ha sbagliato persona. Papà due giorni prima aveva parlato al telefono con il mio fidanzato e nulla lasciava presagire un suicidio”. La Preisig, con tono deciso, le risponde: “Capisco sia difficile da accettare, ma questa è la realtà, le invierò il certificato di morte, e per volontà di Pietro il suo corpo verrà cremato il 22 aprile. Buonasera”.

Francesca è l’unica figlia del sostituto procuratore generale di Catanzaro Pietro D’Amico, 62 anni, indagato e assolto nell’inchiesta Why Not per fuga di notizie. Pietro ha scelto la “morte dolce” per mano della dottoressa Erika Preisig di Basilea. Capelli lunghi, tratti raffinati, laureanda in Medicina: “Papà non era affetto da alcuna malattia inguaribile, non era un malato terminale. È stato aiutato a suicidarsi e l’istigazione o l’aiuto al suicidio è un reato anche in Svizzera”. E precisa: “La depressione di papà, come hanno scritto alcuni giornali strumentalmente, non era conseguenza della vicenda giudiziaria: era sereno, sapeva che avrebbe dimostrato la sua estraneità alle accuse, come è avvenuto. Inoltre ho pieno rispetto per chi compie questo gesto estremo, per chi si batte contro l’accanimento terapeutico e per il diritto ad una morte serena, casi ben distinti da questo”. Ripensa a quelle parole: “Non poteva più vivere, stava troppo male? Mio padre era ipocondriaco, le malattie semmai le somatizzava, ma aveva il terrore di farsi visitare, perfino di andare dal dentista. Era depresso, a fasi alterne, questo sì, ma non incurabile”.

Il suo avvocato Gennaro Falco, quindi, si reca a Basilea per bloccare la cremazione e far eseguire l’autopsia. “Il legale con il collega italo-svizzero Alberto Nanni va a casa poi nello studio della dottoressa Preisig e resta sconvolto dalle sue dichiarazioni e dai luoghi”. Un monolocale in cui la Preisig, aiutata dal fratello Ruedi, che filma la scena, istruisce il paziente ad attivare la flebo contenente il farmaco letale, poi chiama il procuratore di Basilea e il medico legale per attestare il decesso. “Una stanza non attrezzata alla rianimazione anche per un’ultima esitazione del paziente”. La Preisig all’Espresso ha raccontato: “Quando Pietro ha aperto il rubinetto della flebo teneva un crocifisso che mi ha pregato di inviare alla figlia una volta morto. Era affetto da una patologia degenerativa invisibile agli strumenti medici”. Parole che Francesca definisce “agghiaccianti e foto disumane affidate ad un giornale per descrivere quei riservatissimi momenti di papà. Non ho ricevuto alcun crocifisso. Malattia invisibile, certo, papà non aveva prodotto nessun esame diagnostico oltre ai due certificati redatti da medici italiani (per amicizia o in cambio di denaro? Questo dovrà accertarlo la magistratura, ndr) nei quali viene anche descritto incapace di muoversi, di provvedere a se stesso e con la grafia tremante, mentre quel giorno si è recato a Roma, da dove ha preso il treno per Basilea, alla guida della sua auto dopo aver scritto a me e a mia madre una lettera piena d’amore”.

Referti che la Dignitas, l’associazione che si occupa di suicidio assistito – 8.500 euro solo per la richiesta anche se non accettata – dove la Preisig lavorava prima di fondare la Lifecircle, ha respinto più volte. “I requisiti provati diagnosticamente sono: malattia inguaribile e stadio terminale, per questo si è rivolto alla Preisig”. Come conferma lei stessa nella e-mail, in un italiano incerto, ad un parente del magistrato che l’ha incontrata: “Mi sento molto, molto male che Pietro ha fatto a me… Sono delusa del fatto che mi ha mentito Pietro per tre anni. Era intelligente ed io ancora non riesco a credere che era solo depresso… e lui ha simulato il rapporto del dottore… così buono o anche pagato il dottor… che ha redatto il rapporto. Gli ho chiesto per tre anni per continuare a vivere, non ho potuto dire di no ancora una volta. Io non volevo prenderlo, non sapevo che era così popolare, Pietro ha la sua pace ma mi sento tradita da lui perché mi ha mentito quando ha falsificato tutti questi rapporti… vorrei ancora una volta domandare scusa che non ho verificato se i rapporti sono veri…”.

Francesca spiega che “non è stato rispettato neanche il regolamento svizzero che impone la produzione di due certificati redatti da medici terzi, perché uno è della Preisig che ha prescritto il farmaco letale”. Ora la famiglia attende un ultimo esito: la prima valutazione dell’autopsia eseguita dall’Institut Für Rechtsmedizinder Universitat di Basilea diretto dal professor V. Dittmann, alla presenza del medico legale di parte, la dottoressa Bonetti di Modena, “ha escluso che papà fosse affetto dalla malattia descritta sui certificati e da altre patologie incurabili. Papà non avrebbe mai avuto il coraggio di togliersi la vita se non avesse incontrato chi lo ha assecondasse in un momento di difficoltà. Oltre alla mancanza di un approfondimento del quadro clinico con esami strumentali e di laboratorio non vi è stata attenzione nel riconoscere il suo disagio emotivo, considerando che i disturbi di tipo psicologico o psichiatrico di per sè possono indurre alla simulazione di sintomi. Papà andava aiutato a vivere non a morire e la dottoressa Preisig era la persona meno adatta, visto ciò che ha dichiarato a L’Espresso, rispetto al suo vissuto. È incomprensibile anche la tolleranza delle autorità elvetiche per la prassi consolidata – ogni lunedì e giovedì – al termine della quale loro stessi certificano le modalità del decesso”. Francesca D’Amico conclude il racconto più doloroso della sua vita mentre stringe al petto la lettera del padre e ripete che la sua battaglia è appena cominciata.

da Il Fatto Quotidiano del 7 luglio 2013

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