Sulla iniquità dell’attuale sistema di finanziamento delle università italiane cito, Andrea Ichino e Daniele Terlizzese Se i poveri pagano l’università ai ricchi in Corriere della Sera 10 dicembre 2012

Il finanziamento universitario opera ogni anno un trasferimento ingente, circa 2,5 mld di euro, dalle famiglie con reddito inferiore ai 40.000 euro lordi annui a quelle con reddito superiore. Non si può discutere di diritto allo studio e di finanziamento dell’università se prima non si riconosce questa macroscopica e odiosa ingiustizia.

Le famiglie con un reddito fino a 40.000 euro sono il 93% del totale dei contribuenti e pagano solo il 54% del gettito Irpef, dato che questa è una tassa progressiva (Dipartimento delle finanze). Quindi queste famiglie finanziano attraverso l’Irpef il 54% di quanto lo Stato dà all’università, con un contributo di 4,9 mld di euro. Tuttavia da esse proviene solo un quarto degli studenti universitari italiani, mentre dal 7% di famiglie più ricche vengono i restanti tre quarti (Banca d’Italia). Le famiglie più povere ricevono perciò, sotto forma di istruzione, un quarto di quanto lo Stato spende per gli atenei: circa 2,2 miliardi. La differenza tra quanto pagano e quanto ricevono (2,7 mld) è un regalo alle famiglie più abbienti. È vero quindi che, in proporzione al loro reddito, i più ricchi pagano più Irpef, ma non in misura tale da compensare l’uso maggiore che essi fanno dell’università. Tenendo conto delle altre imposte, che sono sicuramente meno progressive dell’Irpef, l’entità del regalo aumenta.

Cambiano le conclusioni considerando le rette universitarie? No. La loro somma, per legge, non può superare il 20% dei bilanci degli atenei. Inoltre la loro struttura è marcatamente regressiva: da un rapporto di Federconsumatori si desume che, in proporzione al reddito, le rette incidono per il 15,6% sui redditi più bassi, ma solo per il 4,3% su quelli di 40.000 euro, fino a quasi annullarsi a livelli ancora più alti. I ricchi pagano di più, ma non molto; tenendo conto delle rette di iscrizione, il regalo che ricevono dai poveri resta comunque di 2,4 mld. E sarebbe di 2,2 mld anche se le tasse universitarie, rimanendo ai bassi livelli attuali, fossero interamente pagate dai più ricchi.

È un trasferimento inaccettabile, che si perpetua solo perché i più ignorano come stanno realmente le cose. Che possa essere maggiore in Paesi dove l’università è del tutto gratuita non lo rende meno odioso e paradossale.

Vanno rimossi tutti gli ostacoli che scoraggiano i ragazzi poveri e di talento dall’acquisire un’istruzione superiore. La qualificazione «di talento» non è però un inciso retorico, va presa sul serio. Il sistema universitario è la modalità con cui la società trasmette la frontiera più avanzata della conoscenza a chi è meglio in grado di riceverla ed estenderla. È un sistema intrinsecamente elitario, perché si fonda su un’ineliminabile disuguaglianza nelle capacità delle persone. È una disuguaglianza che non deve dipendere dalla ricchezza della famiglia d’origine, e bisogna fare ogni sforzo per rompere questo legame; ma così come non è possibile che tutti vadano alle Olimpiadi, è inevitabile che alcuni siano più di altri in grado di prendere il testimone della conoscenza. Ciò non è in contrasto con la nostra Costituzione (art. 34), dove stabilisce il diritto di «raggiungere i gradi più alti degli studi» per i «capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi». Anche questa è una qualificazione importante e spesso trascurata: non per tutti, solo per i capaci e meritevoli.

La scuola è e deve essere per tutti: è lì che si devono davvero creare le pari opportunità. L’università è altra cosa. Chiunque vinca dovrà ripensare al suo finanziamento”. (Ichino e Terlizzese, cit.)

Provo a sintetizzare alcuni punti:

1. In Italia l’università è soprattutto per i ceti  medio-alti: il 75 per cento degli studenti universitari appartiene alle famiglie più ricche pari al 7% del totale delle famiglie italiane;

2. Le famiglie meno abbienti finanziano quindi gli studi ai figli delle classi più ricche, che pagano pochissimo in termini di rette universitarie.

3. Un rapporto della European University Association (Financially sustainable universities II. European diversifying income streams, Bruxelles, febbraio 2011) ci dice che nei 27 paesi dell’Unione europea (2009) le università si finanziano per il 72,8 % con fondi pubblici e per il 9,1 con i proventi delle tasse studentesche. Le risorse dei privati (contratti di ricerca e consulenza) sono pari solo al 6,5 %, a questi va sommato un 4,5 per cento di fondi filantropici: il totale finanziamenti privati, in Europa, è pari all’11 %.  In Italia, le entrate degli atenei non privati (Miur, Le risorse dell’università, 2009) sono per il 63,2 % pubbliche (Stato ed altri enti pubblici), circa 10 punti percentuali in meno rispetto alla media UE 27. Significativamente inferiori rispetto alla media europea sono però anche i proventi dalle tasse universitarie: 7,8 % in Italia (9,1 % nella UE-27) e i finanziamenti privati: solo 2 %. Una fonte importante, pari al 26,3 %, è rappresentata da ‘altre entrate’: vendita di beni e servizi, redditi e proventi patrimoniali ed entrate da alienazione.

4. Nel 2007, le rette a carico degli studenti fornivano in media 1.245 euro agli atenei pubblici della Lombardia; 1.151 a quelli veneti; si tratta di cifre davvero basse se confrontate con paesi come il Regno Unito.

5. L’università deve essere selettiva, se non è selettiva non svolge la sua funzione. Il numero chiuso è un primo modo per selezionare. In tutto il mondo avanzato si usano test per accertare le conoscenze e le capacità degli studenti. Si può ragionare sul fatto che i test non siano sempre gli strumenti migliori, e infatti molti atenei tengono conto anche di altri elementi come i voti conseguiti alla maturità, la media dei voti negli ultimi anni di scuola superiore. Tutto è perfettibile. Ma è  demagogico dire che vada abolito il numero chiuso.

Spero che anche sull’università si abbia presto chiaro che cosa propongono i partiti in lizza per le prossime elezioni.

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