Ci sono due notizie recenti che provengono rispettivamente da Repubblica Democratica del Congo e Rwanda e che solo apparentemente non hanno niente a che vedere tra di loro. Proverò a ricostruire il filo che le unisce, chiedendo venia per la necessaria semplificazione, data la complessità dell’oggetto. La prima notizia riguarda gli scontri tra l’esercito congolese (Fardc) e il Movimento del 23 marzo (M23) costituito da ex miliziani del Congresso nazionale per la difesa del popolo (Cndp, forse ne ricorderete il generale, Laurent Nkunda, arrestato nel 2009).L’ M23 si è formato in seguito alla defezione dalle forze armate di Kinshasa, di un gruppo di miliziani precedentemente integrati nell’esercito regolare con gli accordi di pace del 2009. Il capo attuale dell’M23 è Bosco Ntaganda, ricercato dalla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità.

Gacaca_Elisa Finocchiaro
foto di Elisa Finocchiaro

Primi stralci di un rapporto delle Nazioni Unite, che sarà presto pubblicato, hanno confermato il coinvolgimento politico del Rwanda nella ribellione dell’ M23. Il Ministro degli Esteri ruandese, Louise Mushikiwabo, tuttavia, ha affermato che gli esperti dell’Onu seguono una precisa “hidden agenda che non ha nulla a che fare con la ricerca delle vere cause alla base dei problemi nell’est della Rdc”. Il coordinatore dell’equipe ONU che sta preparando il rapporto, infatti, sarebbe Steven Hege, autore dell’opuscolo apologetico “Capire le Fdlr”. Le FDLR, Forces Democratiques de Liberation du Rwanda, sono il gruppo residuo di ribelli ruandesi aderenti alla dottrina dell’Hutu Power, che conta tra le sue fila un esuberante numero di Interahamwe, quelli che hanno portato a compimento il genocidio ruandese del 1994, per capirci. L’ FDLR è sempre stato supportato dal Presidente congolese Kabila il quale usa questo gruppo come una forza aggiuntiva all’esercito nazionale contro i gruppi ribelli operanti nel Kivu. 

L’altra notizia è la dichiarazione che viene da Kigali, con la quale il responsabile dell’Unità di monitoraggio degli accusati di genocidio della Procura generale ruandese, Jean Bosco Siboyintore, assicura che più di 50.000 persone sospettate di aver partecipato al genocidio del 1994, sono ancora in libertà nella Repubblica Democratica del Congo, Belgio e Francia -ricordiamoci della “Françafrique”, quel sistema di interessi oscuri, che lega Parigi alle sue ex colonie, e soprattutto alla non ex colonia RDC, in un mutuo scambio di favori politici ed economici che soltanto Hollande per primo sta avendo il coraggio di interrompere.

E’ appurato ormai da tempo che soprattutto Congo, Belgio e Francia abbiano offerto riparo ad un certo numero di genocidari del 1994. La maggior parte di queste persone sono stati processate e condannate in contumacia dai tribunali Gacaca, terminati a fine giugno. In era precoloniale il Gacaca era un tribunale popolare volto a risolvere dispute locali. Nel 2002 questa tradizione è stata recuperata con alcune sostanziali modifiche dalla “Commissione rwandese per la riconciliazione” con lo scopo di accelerare i processi per genocidio, sopperendo anche alla lentezza esasperante del tribunale di Arusha (delle Nazioni Unite), con alcune modifiche sostanziali rispetto al tribunale tradizionale. Il Gacaca risponde anche all’esigenza di fare riconciliazione, in un paese in cui vittime e carnefici sono vicini di casa. Ho assistito personalmente ai processi Gacaca e anche ai conseguenti arresti. Gli arrestati spesso avevano “eseguito” i massacri pur di non essere uccisi a loro volta. I veri mandanti delle violenze di certo non stavano in Rwanda a farsi processare, ma in qualche comodo salotto dei paesi sopra elencati.

“Abbiamo tuttavia fiducia nella nostra collaborazione con i diversi Stati interessati. Prima o poi queste persone saranno arrestate”, ha detto Jean Bosco Siboyintore.

Il Rwanda però non si è dimenticato del supporto che l’Occidente ha offerto ad alcune fazioni di genocidari. Non si è dimenticato dell’immobilità dell’Onu di fronte alla morte di un milione di rwandesi in tre mesi. Il Rwanda, a torto o ragione, ha più volte richiesto la non ingerenza dei paesi occidentali, cercando di allontanare almeno formalmente dalla propria politica, quelle distinzioni sociali trasformate in immutabili etichette etniche su cui si sono basate e si basano tuttora le violenze, per una tipica dinamica di strumentalizzazione politica coloniale nota come “divide et impera”.

Ho nuovamente letto su autorevoli quotidiani, in questi giorni, parole come tribù ed etnia hutu o tutsi. Credo che politici, ricercatori, intellettuali e giornalisti debbano smettere di parlare di certi temi in termini etnici, facendo finta che il problema sia tutto lì. L’odio etnico non è una realtà atavica e immutabile, bensì il frutto di manipolazioni storiche e strumentalizzazioni politiche.

Gli interessi –sicuramente enormi – che si nascondono sotto le violenze il cui effetto domino non si ferma in certe aree da decenni, o secoli, non sono “etnici”. L’etnico, prospettiva che indubbiamente ci facilita la vita, è stato e continua ad essere usato per perpetrare il politico.

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