Più ricco sei, meno tasse paghi. Piaccia o no, ci si indigni o si faccia finta di niente, nel mondo globalizzato dove le grandi banche d’affari possono fare tutto quello che vogliono funziona esattamente così. A scriverlo a chiarissime lettere è il recente rapporto di Tax Justice Network, gruppo di esperti giuristi ed economisti che si battono per una maggiore giustizia sociale e che denunciano come i nababbi di tutto il mondo abbiano sinora occultato al fisco tra i 21mila e i 32mila miliardi di dollari. Una cifra che equivale al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme e che sarebbe ancora più spropositata se l’indagine non si limitasse alle ricchezze finanziarie ma prendesse in considerazione anche yacht, collezioni d’arte, ville, appartamenti o quant’altro.

Spaventa anche il ritmo con cui questa montagna “invisibile” di denaro continua ad alzarsi, dal 2005 ad oggi l’incremento è stato infatti del 16% l’ anno. I fortunati detentori di queste sterminate ricchezze sono in tutto 10 milioni ma all’interno di questa comunità di miliardari esiste una super elite composta da appena 91mila persone (lo 0,001% della popolazione globale) a cui è riconducibile un terzo dell’intero tesoro, vale a dire circa 10mila miliardi di dollari. Ne fanno parte miliardari del software e delle nuove tecnologie, immobiliaristi cinesi e sceicchi ma anche soggetti con cui ufficialmente nessuno vorrebbe avere a che fare come grossi narcotrafficanti messicani o sanguinari dittatori africani.

I dati sono frutto delle ricerche di James S. Henry che incrociando un’infinita serie di cifre del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale, delle Nazioni Unite e della Banca dei regolamenti internazionali è riuscito a tratteggiare la mappa del tesoro. Un passato da capo economista di McKinsey (società di consulenza manageriale) e poi una nuova vita come autore di articoli e libri di denuncia sulle malefatte della grande finanza internazionale (da ultimo il libro inchiesta “The blood bankers”) , Henry spiega al Fattoquotidiano.it: “Quelle nascoste nei paradisi fiscali sono cifre talmente ingenti da falsare persino le statistiche sul livello di diseguaglianza nei diversi paesi”. I dati ufficiali dicono ad esempio che negli Usa l’1% più ricco della popolazione possiede il 35% della ricchezza nazionale. Questo calcolo non tiene però conto di una bella fetta di quei 20/30mila miliardi spariti nel “buco nero” dei paradisi fiscali”. “Negli ultimi anni – continua Henry – gli economisti hanno quasi ignorato il problema della diseguaglianza all’interno dei singoli paesi concentrandosi piuttosto su quello della povertà assoluta. Hanno dimenticato quanto importanti e negative possano essere le conseguenze che un’ estrema polarizzazione della ricchezza produce in termini di coesione sociale ma anche di crescita economica”. “Tradizionalmente infatti – conclude Henry – ad un elevato livello di diseguaglianza si accompagna sempre un basso livello complessivo di consumi”.

Ci si può “divertire” ad immaginare quello che si potrebbe fare se questi 20mila miliardi ed oltre fossero regolarmente dichiarati e tassati. Valga un esempio su tutti: ipotizzando un rendimento del 3% annuo di questi capitali e una tassazione del 20% (come quella che si applica oggi in Italia alle rendite finanziarie) si otterrebbe un gettito tra i 120 e i 190 miliardi di dollari l’anno. Significa quasi il doppio dei fondi stanziati annualmente da tutti i paesi Ocse per l’assistenza alle nazioni in via di sviluppo.

Dietro questa gigantesca truffa globale ci sono praticamente tutti i più grandi gruppi bancari occidentali definiti nel rapporto “attori chiave per sostenere il sistema globale dell’ingiustizia fiscale”. Le due banche in assoluto più attive nell’agevolare la fuga dalle tasse dei loro facoltosi clienti sono le svizzere Ubs, che attraverso le sue filiali ha trasferito nei paradisi off shore 1.700 miliardi di dollari (in pratica come “insabbiare” l’intero Pil italiano) e Credit Suisse che si è “limitata” a 933 miliardi. Terzo gradino del podio, con 840 miliardi di dollari, per la statunitense e immancabile Goldman Sachs. Proprio a questa banca d’affari il presidente del Consiglio Mario Monti che si dichiara “in guerra contro l’evasione fiscale” ha recentemente affidato la valutazione di asset e partecipazioni dello Stato in vista di una loro possibile cessione. Nella top ten compaiono anche Bank of America (643 miliardi), HSBC (390 mld), Deutsche Bank (367 mld), Bnp Paribas (338 mld), Wells Fargo (300 mld) e Jp Morgan (284 mld). In molti casi, ricorda il rapporto, si tratta di banche che hanno ricevuto sostanziosi aiuti pubblici durante la crisi del 2008 e senza i quali sarebbero molto probabilmente fallite.

Come fa notare James S. Henry “quello del private banking internazionale è un settore estremamente profittevole che negli ultimi 30 anni è letteralmente esploso grazie alla globalizzazione e alla scomparsa di qualsiasi barriera alla circolazione di capitali”. Funziona così: “Le grandi banche d’affari vanno a caccia di soggetti con patrimoni dai 2 milioni di dollari in su ed offrono loro una sorta di pacchetto completo di servizi che comprende anche il trasferimento di asset in paesi dal regime fiscale estremamente favorevole”. Di solito “tra la banca e clienti di questo tipo si instaura un rapporto di grande fiducia. La banca offre garanzie in termini di ritorno dell’investimento e il cliente da all’istituto carta bianca nelle modalità di gestione”.

Henry racconta di aver ripetutamente chiesto alla Banca dei regolamenti internazionali (una sorta di banca centrale delle banche centrali) i dati e le cifre relative ai singoli paesi ma di aver sempre ricevuto in cambio un cortese ma intransigente rifiuto. Italia compresa. In compenso la Bri ha promesso che renderà accessibili queste cifre dopo il 2014.

Si può provare ad azzardare un calcolo di massima ipotizzando che i capitali di origine italiana abbiano un incidenza pari a quella che il Pil italiano ha sul Pil globale (2,5%). In tal caso si tratterebbe di una cifra oscillante tra i 500 e i 750 miliardi di dollari da cui il nostro fisco non otterrà però neppure un euro. Di fronte a questo trionfo di individualismo a danno della collettività vale forse la pena ricordare le parole di uno degli uomini più ricchi del mondo. Il finanziere statunitense Warren Buffet che ancora nel 1995 affermò “personalmente credo che la società sia responsabile di una percentuale molto rilevante di quello che ho guadagnato. Se mi cacciaste nel mezzo del Bangladesh, del Perù o di qualche altro posto, scoprireste quanto può produrre questo talento nel terreno sbagliato. Dopo trent’anni starei ancora lottando”.

Articolo Precedente

La benzina aumenta, il governo: “Tutto ok”. Ma in realtà l’auto non “tira” più

next
Articolo Successivo

Corsi e ricorsi storici: se l’iperinflazione turba ancora i sonni della Bundesbank

next