C’è una foto della notte post elettorale in Serbia che mostra il leader socialista Ivica Dacic in piazza affiancato dai suoi sostenitori. Appena dietro si riconosce Alexander Vacic, capo del gruppo ultras Alkatraz, la frangia violenta dei tifosi del Partizan. La foto è stata pubblicata dai siti di informazione serbi e in molti hanno pensato male.

Cosa ci fa uno con dodici denunce per violenze e una condanna per accoltellamento vicino alla maggiore rivelazione delle elezioni? Dacic è il numero uno del partito che fu di Slobodan Milosevic e che domenica ha stupito gli analisti politici raggiungendo il 16%. Risultato enorme, voti più che raddoppiati rispetto al 2008 e un futuro da primo ministro come lui stesso ha annunciato: “Non sappiamo chi sarà il nuovo presidente, ma sappiamo chi sarà il nuovo premier”. In cambio di un accordo sul nuovo governo Dacic sosterrà Tadic o Nikolic al ballottaggio del 20 maggio per l’elezione del nuovo presidente serbo. La precedenza e i favori vanno all’europeista Tadic, ex nemico ma già alleato di Dacic nell’ultimo quadriennio.

E così il conservatore Toma Nikolic, già sconfitto nei due ballottaggi precedenti, rischia di perdere per la terza volta nonostante il suo sia il primo partito della Serbia, 73 seggi sui 250 del prossimo Parlamento contro i 68 del partito democratico di Tadic e i 45 dei socialisti. Per avere la maggioranza a Nikolic non basta allearsi con gli schieramenti minori, i liberali di Jovanovic o i nazionalisti di Kostunica che hanno ottenuto 20 seggi a testa. Non siederanno in Parlamento invece gli ultraradicali del criminale di guerra Vojislav Seselj, che non hanno superato la soglia del 5% così come l’estrema destra di Dveri. La legge consente di formare una coalizione di governo entro tre mesi, ma il nodo verrà sciolto dopo il ballottaggio.

A conti fatti, in uno Stato di sette milioni di elettori e quasi il 50% di astenuti, a Ivica Dacic sono bastati poco più di 500mila voti per essere ago della bilancia e prossimo primo ministro. Diventato il leader dopo la morte di Milosevic nel 2006, in sei anni ha rivitalizzato un partito che sembrava finito. Il suo successo sta principalmente nell’insuccesso della Serbia, i suoi salari bassi e la sua disoccupazione al 23%, nel farsi portavoce credibile – credibile per la Serbia rurale anche perché non fa parte dell’élite belgradese – della profonda insoddisfazione sociale. Da ministro dell’Interno Dacic ha proibito il Gay Pride del 2011, ufficialmente per evitare il rischio di gravi incidenti. Giusto un anno prima aveva criticato la polizia italiana per la gestione dell’ordine pubblico nella notte di Italia-Serbia a Genova. Sul Kosovo, lui che è nato a Prizren ovvero nella ex provincia, è uscito dai binari dellarealpolitik belgradese fino ad affermare che il nord a maggioranza serba dovrebbe tornare sotto il controllo della Serbia, prima di fare marcia indietro dicendo di aver pensato a titolo personale solo a una “demarcazione” tra le parti serbe e albanesi. Populista all’interno dei confini, all’estero pronto a sdrammatizzare i timori di Europa e Stati Uniti con dichiarazioni filoeuropee ma sempre sottolineando la fierezza del popolo serbo pronto a farcela anche da solo. Tadic o Nikolic, chiunque sia il prossimo presidente, l’opposizione l’hanno già dentro casa.

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