Il nome è quasi dimenticato: Vajont. Cosa accadde lo sanno in pochi, più facile sentir parlare del crollo di una diga, anche se in realtà la diga è lì, nascosta tra le montagne, e domina ancora oggi Erto, Casso e Longarone, i paesi che quella sera del 9 ottobre 1963, alle 22.53, vennero spazzati via dall’urto di un’onda alta settanta metri. Nessun cedimento: un pezzo di montagna, il Toc, cadde nel bacino artificiale e sollevò qualcosa che può essere paragonata a uno tsunami. Nonostante quel movimento d’acqua la diga riuscì a resistere, l’onda la scavalcò per puntare contro i tre paesi e trascinare acqua e distruzione per chilometri.

Così, l’Italia che viveva il dopo boom economico e aveva dietro l’angolo la crisi petrolifera, scoprì le valli del Bellunese, scoprì la fierezza di quella gente che aveva combattuto la Resistenza e ora si trovava di fronte a un’altra guerra, un’altra ricostruzione. Ancora morti e croci bianche, alcune riconosciute, molte rimaste senza nome, altre senza la dignità di una sepoltura.

Nei bar trasmettevano una partita di calcio in Eurovisione, Real Madrid-Glasgow Rangers, qualcuno forse si accorse di quello che accadde in uno spazio temporale calcolato in 4 minuti. Ma a Longarone quella sera, la maggior parte delle persone dormivano perché c’era la scuola, il lavoro, famiglie da tirare avanti. Forse si accorsero, ma senza capire quello che stava accadendo.

Morirono 1910 persone. Molti più del Titanic e di quanto ha ucciso in Italia il terrorismo in 40 anni. Il Titanic perché quella diga, in quegli anni, era la più alta e potente mai costruita. Un’opera imponente della migliore ingegneria mondiale, proprio come il transatlantico che sembrava inaffondabile e colò a picco. Terrorismo, perché il Vajont fu una strage cercata, un genocidio di povera gente: i vertici della Sade, che poi divenne Montecatini Edison, e gli apparati più importanti dello Stato, sapevano benissimo che la montagna, il monte Toc, stava crollando e avevano capito quello che poteva accadere. Ma tacquero, perché la ragione dell’azienda fu molto di più che la paura di uccidere centinaia di persone.

Vale la pena ricordare? Sì, vale la pena. La prerogativa non può essere relegata solo a coloro che hanno ripopolato quelle valli e cercano di ricostruire una comunità che, ancora oggi, dopo 48 anni, è lacerata.

Ho avuto la fortuna di viverci in quella zona, e di sentire quanto la memoria fosse viva e tragica. Il mio capocronista di allora, Toni Sirena, era figlio di Tina Merlin, la giornalista dell’Unità che per anni avvertì dalle colonne dell’unico giornale che osava pubblicare i suoi articoli, quello che sarebbe accaduto. Rimase inascoltata. Solo anni dopo, e attraverso il lavoro dell’autore e regista teatrale Marco Paolini, il lavoro di Tina venne portato al pubblico attraverso un’opera teatrale. La Sade la querelò, e alla fine venne assolta.

Tina Merlin non l’ho mai conosciuta, se non attraverso i suoi libri, non ho fatto in tempo, se n’è andata giovane. Ma l’ho rivista negli occhi del figlio e in quelli malinconici del marito, Aldo. Era stata staffetta partigiana, era una donna e cercava di farsi largo in un ambiente, quello del giornalismo, che parlava ancora con la voce da uomo. Più che Toni me la raccontava un altro mio grande amico e punto di riferimento, Peppino Zangrando, all’epoca presidente dell’ordine degli avvocati di Belluno (lo sostituì anni dopo Maurizio Paniz, a pensare a certi paragoni mi viene il magone) e col quale, io cronista di giudiziaria, lavoravo tutti i giorni. Zangrando fu uno degli avvocati di parte civile più importanti nel primo processo.

Ricordo, e anche a lui devo molto, Mario Fabbri. Io l’ho conosciuto da procuratore della Repubblica, a fine carriera, ma da giovane era stato il giudice istruttore del primo processo, il primo a puntare il dito contro la Sade, negli anni in cui il potere politico era fuori da ogni diritto di critica, figuriamoci di accusa. In un Veneto, poi, controllato da quel grande tessitore che fu Mariano Rumor.

Mi scuso con gli eventuali lettori, ma ho usato la prima persona non perché mi creda qualche merito, ma per sottolineare quanto a volte gli incontri ti possano in qualche modo arricchire la vita. E credo che Merlin, Zangrando, Fabbri, valgano mille citazioni, furono rivoluzionari in un’Italia dove ogni forma di ribellione veniva spenta con i lacrimogeni. O con le pistole.

Stasera, alle 22.53, mi ricorderò di tutte quelle persone che sono andato a conoscere anni dopo, quelli che avevano perso i genitori, i fratelli, gli amici, i sopravvissuti di tre paesi fantasma. Cercherò di immaginare quell’Italia in bianco e nero. E non so se fosse migliore o peggiore di quella di oggi. Il settimanale democristiano La Discussione va oltre, evoca il soprannaturale: «Quella notte nella valle del Vajont si è compiuto un misterioso disegno d’amore». Presidente del consiglio era Giovanni Leone. Era un presidente, del Consiglio prima e della Repubblica poi, a cui i colpi di teatro piacevano, bizzarro tanto da rispondere con le corna agli studenti che a Pisa lo contestavano. Ma a Longarone riuscì a superare se stesso: arrivò in elicottero due giorni dopo la catastrofe, nessun altro politico da Roma ebbe lo stesso coraggio. La gente urlava assassini, inteso come il governo che lui rappresentava. Ma Leone riuscì a calmare tutti, tirando fuori dal taschino un fazzoletto bianco impregnato di lacrime: “Giuro su questi corpi e queste rovine che sarà fatta giustizia”. Ma quando il sindaco Arduini, che sotto l’onda perse un figlio e i genitori, citò in giudizio Giorgio Valerio, presidente della Montecatini-Edison subentrata alla Sade, – come ricordò in un memorabile pezzo Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera – in tribunale venne depositata una memoria difensiva che sostenne l’imprevedibilità della catastrofe. Firmata: “avvocato Giovanni Leone”.

Era anche questa l’Italia in bianco e nero della Dc. Evitiamo ogni paragone, sarebbe inutile e improduttivo. Ma stasera vale la pena ricordare. E provare vergogna per quello che accadde.

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